Sine Libertate Nulla Salus

Comunicazione presentata al Congresso Tomista Internazionale
L’umanesimo cristiano nel III millennio: la prospettiva di Tommaso d’Aquino
Roma 21-25 Settembre 2003 – Palazzo della Cancelleria – Angelicum

Maria Pia Rosati e  Giuseppe Lampis

Salvation and liberty in the christian message

Adirect relationship exists between man’s freedom and man’s salvation.

A distinctive feature of Christianity is that, in itself, it implies liberty in respect of the State. St. Thomas also clearly takes up this theme. He recognises the duty to rise up and reject the State if the State betrays man.
In the age of Constantine, Christians came to an agreement with the empire, but on the basis of an inalienable principle; if the empire were to act in contradiction of this principle, the agreement would lapse.
Contemporary man no longer knows how to rebel, or to rise up with the essential as a lever. This is even more difficult in an epoch that disenables and disempowers man, deviously relieves him of responsibility and the fatigue entailed in being fully himself, and invites him to escape the pain and risk of nothingness.
The de-christianization typical of modernity is not the sign of the death of God, but of the death of man who is free. Man in his freedom is always found at the frontiers, one of those “last” whom the Saviour describes as “blessed”.

SINE LIBERTATE NULLA SALUS

I. Per essere libero l’uomo deve fare leva sull’essenziale di sé.

Il cristianesimo porta in sé come tratto distintivo la libertà dallo stato. Anche Tommaso d’Aquino riprende con chiarezza questo tema. Egli prevede che si abbia il dovere di alzarsi e respingere lo stato se lo stato contraddice l’uomo. Nel secolo di Costantino i cristiani strinsero un accordo con l’impero, ma tale accordo fu fatto su una base indisponibile, se l’impero entra in contraddizione con tale base l’accordo salta.

Galata  (opera fotografica di Lorenzo Scaramella)
Galata (opera fotografica di Lorenzo Scaramella)

Sussiste un rapporto stretto tra uomo libero e uomo che si salva.
Per difendere la libertà e respingere le forze che possono conculcarla è necessario disporre di un punto d’appoggio incrollabile. Su che cosa può fare leva l’uomo che per affermare la propria libertà deve alzarsi a dire no?
L’uomo attuale non sa più ribellarsi. La ribellione comporta che si alzi l’uomo capace di fare leva sull’essenziale. Ciò è sempre più difficile in un’epoca che disarma e sfibra l’uomo esonerandolo subdolamente dalla responsabilità e dalla fatica di essere se stesso e lo invita a scansare il dolore e il rischio del niente.
La scristianizzazione tipica della modernità non è il segno della morte di Dio ma della morte dell’uomo libero.
Bisogna ripensare coraggiosamente a cosa significhi nel nostro tempo riprendersi la libertà. E’ necessario avere chiara coscienza del fatto che la libertà non si limita a una dimensione politico-giuridica, la libertà codificata trae senso da una terra in cui lo stato non c’è ancora.
L’uomo libero si colloca sempre al confine. Egli è uno di quegli ultimi che il Salvatore indica come beati.

II. Il mondo dell’immanentismo è un mondo dell’uomo che ha rinunciato al peso della libertà.

Nelle epoche in cui l’orizzonte divino si allontana, cadono gli sbarramenti eretti dalla sua influenza e il vuoto da esso lasciato viene riempito da un pullulare sempre più insolente di potenze basse, maligne e stupide. Così, dalla temperie in cui valgono le regole coerenti della religione si passa alla superstizione, saltando da uno scongiuro all’altro affannosamente e senza guida.

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L’Occidente, cristiano e non, ha ceduto sempre più al buddismo; le religioni occidentali arretrano, tutto il campo è occupato da una forma mascherata e inconsapevole di buddismo. In particolare, di un buddismo in una tarda versione degenerata e caricaturale. Un impasto di compassione, edonismo individuale, indifferenza, estetismo, droghe euforizzanti o anestetiche, cinismo.

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Il tema della morte di Dio è una delle facce con cui si presenta il problema della incapacità di intepretare storicamente cosa sta succedendo. Le ideologie, con la loro propaganda, offrono degli scorci sul futuro eppure le loro formule sono stantie e screditate. Ma, comunque vada con esse, il problema resterebbe egualmente in piedi: infatti il senso di disorientamento non riguarda tanto il futuro quanto il passato.
Quello che non riusciamo a capire è dove siamo, che terra è quella in cui siamo capitati, che senso ha la vita in cui siamo immersi. Qui sta il vuoto e lo smarrimento. L’incertezza del futuro è solo una proiezione del disagio primario. Il fatto stesso che la nostra cultura tenda a vedere le cose solo nell’ottica del futuro è il segno della sua deformazione e della sua inettitudine.
Il problema non è il futuro ma il nostro passato. La nostra storia, insomma. Non capiamo più chi siano i nostri padri e le nostre madri, la nostra terra e il cammino già fatto.

In generale, quando il tempo si presenta come problema si tratta del tempo già in atto.
Il disagio di non sapere rispondere alla domanda circa il suo significato dipende, in ultima analisi, dal fatto che la civiltà occidentale di questa epoca è incorsa in un errore abissale.

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Nietzsche non dice: “Uno degli dei è morto”, come il famoso marinaio di Plutarco udì gridare in mare aperto, né dice: “ Gli dei sono morti”, perché questo lo aveva già detto Paolo; ma dice precisamente: “Dio è morto”. Una frase che non ha senso. “Dio” non muore. Se mai non c’è. Se c’è non muore.
Infatti il senso sotteso della frase è ben diverso: “Dio è vivo, ma ciò nonostante non riesco a credere in lui, a essere con lui”.

Ma, infine, a che gli sarebbe servito crederci? Oramai, dopo la potente sintesi di Hegel, tutta la storia del mondo era stata riconosciuta e pensata come la biografia di Dio. Il Dio citato da Nietzsche è lo Spirito hegeliano di modo che, per lui, a morire è il senso del mondo. In verità, il problema era stato già risolto da Hegel. Era stato lo stesso Hegel a affermare che – approdata alla assoluta autocoscienza di sé – la storia, idest la filosofia, idest Dio, era giunta alla “fine”, conclusa.
La storia è finita, o sei dentro o sei fuori; o sei storia o sei niente. E’ qui, sotto il chiarore lacerante di questo lampo, che si stacca l’urlo di Nietzsche. Tuttavia le parole che egli pronuncia non sono sincere e tradiscono il senso riposto: “Non riesco a essere storia”.

III. L’uomo libero è quello chiamato «ultimo». L’ultimo è l’uomo essenziale.

Per Platone l’antiuomo è il tiranno. Ciò sottintende che il vero uomo è colui che è libero.
Per Eraclito l’uomo è libero solo nel carattere, l’ethos, e il carattere – egli dice – è un daimon, l’azione di un dio.

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Per Gesù di Nazareth è intollerabile che anche un solo uomo, anche il più periferico e umile, sia preda del male. Nel suo messaggio principale, specie nel discorso della montagna, si vede chiaramente che la battaglia contro il male non riguarda una élite aristocratica; credere ciò equivale – per lui – a essere già succubi del male, ad aver già perso in partenza: il male va sfidato a battaglia là dove si esprime con maggiore protervia, nel povero, nel disgraziato, nel peccatore incallito.
Una simile impostazione non appartiene alle correnti principali dell’ebraismo, per esse Javhé non compie il “male”, piuttosto egli punisce e premia, ed è blasfemo pretendere che renda conto dei criteri che segue. Il povero, il disgraziato, il peccatore non sono il segno di un “male” compiuto dal Signore.
L’ossessione del male, di cui è suprema traccia in Gesù, trova semmai dei paralleli nella cultura iranica.
Sotto questo profilo, si coglie ancora meglio il rilievo gigantesco della sua predicazione.
Inoltre si deve cogliere il rapporto profondo tra il culto del vero e unico Dio e la lotta contro il male. La lotta radicale fino agli estremi confini dell’umanità contro il maligno si spiega in coerenza con un quadro di monoteismo assoluto. Dio, il padre vero, abbà, non tollererebbe che nessuno soffra; nessuno: un problema che si pone più ai margini dell’universo che al centro.

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L’uomo a cui si rivolge il Salvatore cristiano è l’uomo che sta «al limite». Ciò comporta che – per l’azione del Salvatore – sia proprio questo l’uomo essenziale: essenziale sia perché non può venire tolto dall’orizzonte dell’umanità senza con ciò mutilare e smarrire l’umanità stessa, sia perché si presenta senza aggiunte, senza fortune, spoglio. Esso è spoglio di tutto ciò che può venire tolto senza intaccare il suo essere uomo.
Questo uomo-limite, l’ultimo, il beato delle beatitudini, è l’uomo non ulteriormente spogliabile, l’uomo che non si può spingere oltre il confine sul quale già è stato compresso.
Uomo ultimo, e perciò anche riconosciuto come primo. Il limite che resiste e che regge a ogni pressione. Il principio da cui si parte sempre e che resta dopo tutte le fortune e tutte le occasioni.
Esso è il punto su cui fa leva la rivolta contro il male. «Mi rivolto dunque sono», dice Albert Camus; in tanto posso rivoltarmi perché già da sempre sono libero da ciò contro cui mi rivolto.
Per vivere la mia libertà debbo attualizzare in me il mio essere l’uomo ultimo, lo spogliato e il senza niente di aggiunto.

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Mc 10, 31: «E chiunque ha lasciato case o fratelli o sorelle o padre o madre o moglie o figli o campi per il mio nome, riceverà il centuplo e erediterà la terra».
«Molti primi saranno ultimi e molti ultimi saranno primi».
(Cf. anche Mt 19, 29-30).
Per riconoscere l’«ultimo», dunque, si devono togliere parenti legami campi e case, tutto ciò che fissa in una situazione troppo determinata.

IV. L’idea universalistica spinge verso il Regno universale, ma ciò pone un problema assolutamente impensato: lo stato dell’età della tecnica rischia di abolire l’uomo per salvare il quale è sorto.

E’Roma che ha prevalso sul cristianesimo o il contrario? Fra i due è stato visto un contrasto insanabile, a partire dalla Apocalisse di Giovanni. Dal canto loro i partigiani dell’impero hanno attribuito al cristianesimo il demerito di averne provocato la caduta. Il cristianesimo avrebbe fatto entrare in campo un ordine di valori alternativi alla virtus dei padri e al senso dello stato; addirittura la nuova superstizione altro non sarebbe che l’ultimo distillato della infiltrazione del veleno semitico, l’antico avversario dai tempi di Cartagine.
Eppure, se ampliando la prospettiva temporale non ci fermiamo ai primi secoli della nostra era e arriviamo fino a noi, possiamo constatare che per ora sta vincendo Roma e che il cristianesimo è andato a inverarsi in un Nuovo Mondo reale – o in un nuovo impero – retto dalla convinzione che compete a esso di combattere il male fino a salvare l’ultimo uomo.
Roma, dunque la Città, alla fin fine sembra avere prevalso e avere dialettizzato il cristianesimo. L’universalismo etico del messaggio cristiano è confluito, anche se dopo un lungo e tormentato itinerario, nell’universalismo della idea imperiale.
D’altronde l’impero già da tempo si era autorappresentato, a partire dallo stesso Cesare Augusto, come investito e giustificato dalla missione di lottare contro il male nel mondo e di instaurare un evo nuovo di salvezza.
L’idea di impero universale esercita un’attrazione inevitabile verso i cristiani. Del resto un regno senza Città non è un regno.

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Nel socialismo ottocentesco confluiscono moventi antichi, attese messianiche comprese, relativi a contenuti tipici dell’umanitarismo cristiano.
Ma dopo una lunga parabola storica già percorsa siamo in grado di riconoscere che il socialismo è una stata una variante dello statalismo, anzi del nazionalismo. Quando lo statalismo approda alla sua fase matura e totalizzante, esso nazionalizza le masse, le masse vengono compattate e rifuse in un solo organismo. A queste condizioni, e solo a queste, lo stato diventa un’arma capace di sostenere le sfide del suo secolo.
Atto fondamentale per la nazionalizzazione unitaria delle masse è l’edificazione dello stato sociale, previdenziale e assicurativo. L’invenzione è brevettata da Otto von Bismarck e non dallo spontaneismo anarcoide delle mutue operaie.
L’internazionalismo socialista, infine, è solo una copertura della pretesa imperialistica implicita nella fede nel primato della nazione.
Il socialismo nato per liberare finisce con le burocrazie anonime dello stato sociale o nella sua forma più radicale addirittura con il nazional-socialismo. Ultimo ambiguo bifronte, da una faccia la volontà di imporsi alle cose e dall’altra la spinta a chiudere il singolo nella testuggine delle garanzie. Arma apparentemente formidabile, ma non invincibile.

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Fra libertà e stato, alla radice, nel confine senza tempo, corre una opposizione costitutiva. Lo stato espropria il singolo di ogni sua natura per affermarsi; ma non sempre si tratta di una sopraffazione, i singoli desiderano presto di scaricarsi delle difficoltà e delle responsabilità.
Al contrario, un individuo legato ancora alle radici profonde e non conculcabili della natura umana sente di non avere niente a che fare con la ragione intima degli stati, specie nella fase estrema della loro maturazione.
Ora siamo in un’epoca in cui lo stato coincide perfettamente con la tecnica, come ha ben spiegato Carl Schmitt: ne discende che il singolo ha con la tecnica lo stesso rapporto di delega e protezione che intrattiene con lo stato? Per rispondere, occorre riconoscere cosa ci sia dietro la tecnica e da quale fonte essa scaturisca.
In effetti, l’essenza della tecnica non va confusa con il superficiale comfort, il suo versante congeniale con un individuo sfibrato e stanco. Il comfort non è che il lato dolce del dominio.
La tecnica esce da un impulso aristocratico e intollerante, la sua essenza è guerriera, non c’è alcuna differenza di fondo tra arma e tecnica. E, di conseguenza, tra stato-tecnica e arma.
Il duello si fa sempre meno mascherato; beninteso, per coloro che abbiano ancora voglia di stare in guardia.

V. Riesce a restare libero soltanto l’uomo che non dimentica di essere sempre nel punto della fine.

L’orizzonte divino si presenta sempre legato a dolore e morte. Una umanità che dimentica dolore e morte non ha orizzonte divino.

L’orizzonte divino si rivela soltanto agli uomini che si tengono in rapporto con le cose essenziali e non sfuggono a esse. In questo senso è importante il modo con il quale si ha a che fare con il dolore e con la morte. Una umanità che non vuole conoscere il dolore e la morte, che ne ha paura, che li rifiuta, non ha orizzonte divino, non ne ha bisogno, e l’orizzonte divino se ne ritrae disprezzandola .
Una umanità che assegna il rapporto con il dolore e con la morte a un settore tecnico e li toglie dal proprio centro, una umanità che burocratizza la cura del dolore e la esperienza della morte, non merita un vero orizzonte divino.
Dio è morto? Questa è ancora una domanda tragica e in radice religiosa. Se fosse pronunciata con intenzione autentica dietro di essa si affretterebbe un Dio. Lo sarebbe, infine, ogni domanda che concerna l’essenziale: l’uomo attuale non si pone simili domande, appena insorge un disagio o un problema riempie un modulo o chiama un professionista addetto allo specifico.
Il problema supremo universale non c’è più, è stato destrutturato, al suo posto si presentano solo piccoli problemi di rubrica degli indirizzi, limitati problemi concernenti la individuazione dell’ufficio o della macchina che occorra attivare e consultare. Il medico applica un protocollo o una griglia di protocolli a seconda di come sminuzza la domanda che riceve.

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Il livellamento degli uomini, il compattamento, la uniformità, la omogeneizzazione dei molti in un unico generico, la riuscita dell’esperimento di Faust, quale stupenda occasione per un dominatore!
Alessandro doveva piegare a sé popoli diversi e molte teste, oggi il generale che voglia uscire dalla sua piccola Macedonia nello spazio aperto ha di fronte a sé solo un imbelle che non vede l’ora di essere salvato.
Salvato, al modo che intende Hegel nella figura della dominazione: servatus, servus. In ciò Hegel ripete il punto fondamentale di Eraclito, che tutto nasce dal conflitto, schiavi e liberi.
Tuttavia questa è la salvezza da parte del «Principe di questo mondo» (Gv 13, 31), da parte di quel Giuseppe il Nutritore di cui racconta Thomas Mann. Essa non è sufficiente per salvare l’«ultimo», non sappiamo se sia comunque necessaria, ma sappiamo che di certo non è sufficiente. L’uomo libero si salva altrimenti.

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Arriva una fase in cui il Cristo non è il crocifisso, non è il risorto, non è il predicatore, e non è il pellegrino che non riconosciuto accompagna in silenzio. Tutto ciò non basta più, arriva l’ultimo Cristo, il giudicante. Gli uni di qua, gli altri di là.
La libertà è superiore a ogni altro valore, tutti i valori sono posti dalla forza creativa della libertà, la libertà è feroce, non garantisce niente a nessuno, essa è il pugno levato in alto del Cristo finale della Cappella Sistina, del giovane forte Dio che non ha paura di scegliere.

VI. «Gli ultimi»

Nella nostra epoca si è impiantato un sistema dalla potenza mai vista prima nella storia. Esso non consiste né in uno stato particolare né in un congegno geograficamente definito, tutto il pianeta è rifuso dentro un sistema di cui gli stessi stati fanno parte integrante e altro non sono che sue propaggini tecnico-esecutive. Perfino le ideologie e i movimenti antagonisti, come i socialismi, a prescindere dai fini che si erano proposti, si sono rivelati essere parte integrante e coerente di questo sistema mondiale.
Lo sviluppo e il benessere, uno dei maggiori risultati lungo la strada dell’emancipazione e del rispetto dell’uomo, hanno comunque portato con sé degli inevitabili giganteschi apparati burocratici, e insieme con essi deresponsabilizzazione, perdita di identità, abdicazione e delega di responsabilità.
In questo contesto, che sarebbe ingenuo e antistorico pensare di cancellare, il problema della libertà si pone in termini ancora più acuti che in passato, infatti sembrano arrivati tempi in cui si rinuncia alla libertà più facilmente che in passato.
Come si può e si deve essere liberi in un mondo così storicamente necessario e insieme così in contrasto con la personalità e la identità del singolo libero?
Per il cristiano è questa la forma del grande problema di sempre, fin dal compromesso con l’impero romano e dalla accettazione del pellegrinaggio nel mondo storico reale. In quel tempo i cristiani decisero, a conclusione di un aspro dibattito sulla natura stessa del proprio ethos, che il problema dell’uomo non si doveva risolvere ritirandosi dal mondo bensì riconoscendo che la prova si presenta e si affronta in un tempo e in un luogo determinati e incarnati. Ma essi affermarono anche, nel tempo stesso, che stare nel mondo non significava esaurirsi in esso e risolversi in toto nella dialettica delle sue potenze.
Non era certo la prima volta che nel corso delle civiltà un simile messaggio veniva comunicato all’uomo. Tuttavia il cristianesimo ha il merito di averlo riproposto e riacceso. Ancora oggi, perciò, l’uomo contemporaneo può ricollegarsi alle radici cristiane della civiltà in atto e trarre un importante aiuto dal nucleo essenziale del messaggio cristiano.
L’appello a coloro che da “ultimi” possono divenire “primi” contiene un messaggio anche per l’uomo di questa epoca decisiva.

 

Maria Pia Rosati, Giuseppe Lampis

 

 



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