AA.VV.
Giunta, Napoli 1992; pp. 313
tit. orig. Antwort. Martin Heidegger im Gespräch, Pfullingen 1988
È comparsa nell’autunno 1992 una nuova traduzione italiana di Antwort. Martin Heidegger im Gespräch.
Ritroviamo così la famosa intervista del filosofo a «Der Spiegel», che è del 1966 e che fu pubblicata nella rivista il 31 maggio 1976 (XXX, n. 23), restituita nella versione effettivamente da lui autorizzata. Il titolo del colloquio è Nur noch ein Gott kann uns retten, ormai solo un dio ci può salvare.
È questo uno dei rari casi in cui Heidegger parla dei compiti della politica e, in particolare, uno dei rari casi in cui ne parla, potendo andare oltre alle domande sulle sue scelte del 1993, dicendo cosa ne pensa in relazione al suo problema decisivo.
La posizione di Heidegger è che il problema oggi decisivo è «come si possa associare un sistema politico – e quale – all’attuale epoca della tecnica» (p. 121).
La democrazia, a parte la genericità di questa espressione, non gli sembra adeguata.
Come nasce il problema?
La tecnica, per Heidegger, non è uno strumento a disposizione dell’uomo ma, al contrario, è un destino che dispone – esso sì – dell’uomo. «L’uomo è richiesto, reclamato e provocato da una potenza che diviene manifesta nell’essenza della tecnica» (p. 125); insomma, l’uomo non la usa ma ne è usato. Di fronte a ciò la stessa filosofia è alla fine, ormai sostituita dalle scienze, psicologia, logica, politologia, cibernetica.
«Pensare» è diventato quasi impossibile, perché «troppo grande è la grandezza di ciò che è da pensare» (p. 134), e ormai ci si può solo aprire all’attesa, anche se non passivamente, bensì in preparazione: «preparare la disponibilità a tenersi aperti per la venuta o l’assenza del dio» (p. 125). Il che vale a dire che occorre recuperare la natura più radicale del pensiero che è di trovarsi «in dialogo col destino del mondo» (p. 128), destino che è – appunto – la tecnica planetaria.
I nazionalsocialisti a suo tempo sono andati «in quella direzione, ma quella gente era troppo sprovveduta nel pensiero perché raggiungesse un rapporto realmente esplicito con ciò che oggi accade e che è da tre secoli in cammino»; gli Americani, dal canto loro, «sono ancora impigliati in un pensiero che, come pragmatismo, favorisce sì l’operare tecnico e il manipolare ma al tempo stesso sbarra la strada a una meditazione su ciò che è peculiare della tecnica moderna» (p. 129).
Il compito è rimasto tuttavia in mano agli Europei perché il problema è nato nella loro storia e dunque, riappropriandosi a fondo del senso della loro storia e della loro tradizione, sono essi che potranno forse comprendere a quale destino stanno dando luogo: «Il pensiero viene modificato solo dal pensiero che ha la stessa provenienza e la stessa destinazione» (p. 130). Ma questo non accadrà, quando accadrà, per decisione degli uomini. È chiaro che, data l’insufficienza della filosofia che è diventata metafisica e poi scienze fisico-matematiche, il pensiero di cui si parla è «l’altro pensiero» (p. 126), la disponibilità all’apertura, il poetare che è in attesa del dio. A ciò, non servirà l’incontro con l’Oriente e le esperienze orientali («il buddismo Zen», p. 130): l’altro a cui ci si deve preparare non è salto, fuga, rinnegamento delle proprie radici, ma ritorno a casa, e superamento (anche hegelianamente) del fatto che la tecnica ci «sradica e strappa alla terra» (p. 122).
La terra che ha inviato il destino, quello che oggi domina e usa il mondo e gli uomini, è l’Occidente ed è qui, nella terra del tramonto, che dobbiamo prepararci al dio che può venire o che può non venire: ma, in questo caso, anche il morire nell’assenza del dio sarà comunque diverso dal grossolano «crepare» (p. 124).
Abitare la terra in senso autentico è l’indicazione del destino la quale risuona nella poesia di Hölderlin e attorno alla quale ruota la domanda su cosa significhi pensare. Dunque, anche e soprattutto la politica non può non essere richiamata a sorgere dal pensiero del destino dell’uomo e a rispondere, per essere adeguata al livello del problema che si pone ormai, a cosa voglia dire la mondializzazione della tecnica e che cosa sia oggi, se le cose stanno così, salvarsi, riappartenendo alla terra.
Il sistema politico da costruire non dovrà essere, dunque, lo stato tecnico, che «sarebbe l’aguzzino più servile e più cieco nei confronti della potenza della tecnica» (p. 124). L’umanità deve ripartire dall’accettazione dei propri limiti e imparare a non credersi padrona del mondo, anche se questo non vuol dire che deve sentirsi caduta «in una sciagura inevitabile e senza scampo», perché il nostro compito oggi è «far sì che l’uomo giunga almeno a un rapporto soddisfacente con l’essenza della tecnica» (p. 129).
Quando ci riusciremo? Può il filosofo dire qualcosa di immediatamente efficace? No, perché nessuna aspirazione meramente umana può «produrre nessuna trasformazione immediata dello stato attuale del mondo» (p. 128). Siamo in una condizione di provvisorietà e bisogna prenderne atto. Del resto, la provvisorietà del pensiero è dovuta al fatto che la strapotenza della tecnica mantiene nel segreto la propria vera essenza e sta appena iniziando ora a dispiegarsi appieno.
Il pensiero dell’età della tecnica è un altro pensiero, che cede il passo a una nuova disposizione ad accogliere ciò che va accolto. Così ci si deve preparare all’esperienza di un richiamo in cui l’ascoltare sia un appartenere (hören – gehören).
A cosa apparteniamo autenticamente? Porsi questa domanda è prepararsi al futuro, perché «solo un dio ormai ci può salvare» (p. 124).