L’arte della politica
al tramonto della modernità

Giuseppe Lampis
Ed. Mythos, Roma 1994, pp. 96

Annamaria Iacuele

Il saggio, complesso e scaturito da una ricca esperienza di pensiero, si articola in 12 capitoli che affrontano i temi archetipici della ricerca della felicità e del benessere da parte dell’uomo che per questo si associa ad altri uomini, creando così l’arte del vivere civile o in altri termini l’arte della politica.
artepoliticaUn saggio dunque non legato o dettato dalle vicende dell’oggi, e quindi decisamente “inattuale”, che parla della politica collocandosi al di sopra della politica e delle sue particolari ideologie, e che perciò guarda ad essa come ad un’arte che, come ogni vera arte, si confronta con i problemi di sempre dell’umanità e concerne l’uomo in tutta la sua totalità.

La politica infatti dovrebbe essere una manifestazione di quella forza capace di dare vigore alla cosa pubblica, e di mantenere quell’alimento e quella ricchezza che questa trae dalle sorgenti originarie della vita, dal Cielo e dalla Terra.

Ed ecco dunque sorgere degli interrogativi inevitabili.
Chi conosce oggi, nell’epoca della secolarizzazione, la capacità di collegarsi con il Cielo e la Terra?
Che cosa è allora il potere politico?
Che cosa lo fa essere potere, cioè che cosa fa sì che degli uomini comandino e degli altri ubbidiscano, in modo tale che l’ordine pubblico perduri?

L’ordine pubblico è infatti impossibile senza ubbidienza, perché comando e ubbidienza sono le due facce simmetriche dello stesso ordine.

Dallo studio del sentimento su cui si basa l’ubbidienza, l’autore evince che il comando debba presentarsi come l’attuazione di un ordine profondo insito nella natura stessa e che dunque l’ubbidienza sia il piegarsi all’ordine stesso delle cose, alla finalità originaria ed universale. In altre parole è possibile il comando solo se esso riesce a farsi percepire come autentico, come il vero manifestarsi dell’ordine superiore originario e, pur nella situazione particolare e contingente, riveste un carattere metafisico e appare dunque come immediatamente degno di rispetto e di ubbidienza.

Per i Romani la politica era direttamente inserita nella sfera del sacro: la forza dello stato e dunque dell’ordine pubblico era basata sulla  pietas, sull’ubbidienza agli dei e la vita stessa della città consisteva in una liturgia, uno svolgimento di azioni sacre e poteva essere raccontata come un mito.

All’imperatore verrà attribuito potere in quanto Augusto, depositario, secondo il nome, degli auspici ed auguri divini, garante della pax deorum, sommo pontifex, mediatore tra gli dei e la città.

Con l’attribuzione del potere all’imperator si apre un processo di esaltazione del soggetto e assume valore centrale il trionfo, celebrazione entusiastica della vittoria bellica dell’imperatore, che si rifà ad un rito arcaico di ispirazione dionisiaca, molto lontana dalla modesta semplicità dei costumi repubblicani. Il protagonista dei grandiosi trionfi non è né la generica cosa pubblica, né una magistratura impersonale, ma un uomo solo a capo di un esercito.
È questo ad un tempo l’approdo della crisi della repubblica e un importante punto di svolta nella storia dell’Occidente. Infatti dietro l’imperator vittorioso avanzano le plebi rurali in armi e cominciano a manifestarsi le nationes:
…i soldati che portano in alto l’imperatore sono i titolari di un potere straripante che non sa stare al suo posto. Essi, da una parte esprimono un primato che assorbe la funzione distinta delle magistrature sacerdotali e, dall’altra, pretendono di risolvere i problemi economici con la forza delle armi. Sotto questo aspetto, essi sono i detentori di un potere che non si interroga più su cosa sia il potere” (p. 25).

La tensione, propria di tutte le società gerarchiche, tra chi esercita il comando e chi possiede l’arte di fare le cose che vengono comandate, non riesce a superare il punto critico di rottura e ha come conseguenza la rovina dell’intero sistema.

L’accelerazione antropocentrica e soggettivistica opera inevitabilmente una svolta nella stessa creazione del genio latino: lo ius, il diritto, il quale da concreta manifestazione storica di un ordine mistico trascendente, fas, si trasforma in lex che, allontanandosi dal piano della metafisica, contiene i germi della secolarizzazione del governo della città e diviene soggetta alla mutevolezza storica delle circostanze.
L’uomo della modernità si autointerpreta come soggetto integralmente storicizzato e trae la legittimazione del potere politico dalla capacità di farsi interprete e protagonista (nel senso etimologico del termine, mutuato dall’ambito teatrale) del proprio tempo. È il passaggio dall’esse al percipi.

La formazione di questa coscienza trova un momento decisivo nella figura del principe di Machiavelli, uomo dalla morale provvisoria che esprime la perdita del senso, per il quale il mondo è un problema pratico da risolversi con la strategia animalesca della volpe e del leone, e uomo la cui virtù consiste nella capacità di far fronte all’imprevedibile futuro, al tempo inteso come limite.

L’autore tuttavia ci ricorda che la figura del principe di Machiavelli ha inquietanti affinità con la figura di Don Giovanni, il burlador che riduce ogni problematica oggettiva ad una dimensione soggettiva (connotata non più dalla razionalità universale alla quale anzi si irride, ma dalla sanguigna mondanità del desiderio) e il cui eroismo consiste in un’irrisione dei valori tradizionali e in una ostinata ricerca della dimensione infernale.

La politica moderna vuole legittimarsi con il controllo della tecnica, perché questa promette la felicità delle masse. Ma la tecnica, anche nell’età delle macchine disponibili per chiunque, resta tipicamente gerarchica: chi possiede il segreto della tecnica ed è capace del gesto corretto appare come l’espressione di una potenza dell’essere ed è ritenuto dunque degno di assumere posizioni di comando nella società.

Ed eccoci di fronte ad un nuovo paradosso della modernità. Il sapere e il fare si sono saldati nelle mani dell’uomo galileiano, un homo technologicus che, divenuto padrone dello strumento, ha due possibilità : ricollegarsi al cielo cercando una strada di liberazione verticale, o porsi al centro dell’universo e dilatarsi orizzontalmente. Ma la tecnica in realtà può agire e moltiplicare le energie creative più dirompenti solo se opera in concordanza con le leggi del cosmo, esplicitandole e esaltandole. L’uomo che si è illuso di poter usare la tecnica insorgendo prometeicamente contro il divino ha operato soltanto un gigantesco mascheramento della realtà.

Dalla tecnica nasce come proiezione, secondo l’autore, il capitalismo il quale instaura il mercato globale.
Il mercato globale è in realtà “…un nuovo ordine mondiale – garantito da un’unica polizia planetaria di alto livello tecnologico e mobilissima, tendenzialmente molto ristretta e perciò invisibile – in cui la dotazione strategica di fondo sia individuata, nel livello qualitativo del cosiddetto fattore umano” (p. 51). Infatti nel mercato globale tutto il mondo intero appare come offerto sotto forma di merci-simbolo in dialogo con uomini che a loro volta sono trasformati in soggetti di potere d’acquisto.

La merce è caratterizzata dalla sua desiderabilità, cioè dalla sua capacità di veicolare idee, immagini, informazioni, che si mostrino prevalentemente come rassicuranti, risolutrici del problema del tempo, del futuro, limite inquietante e minaccioso. E l’intera umanità ritenendo di potersi affermare solo se riesce a risolvere il problema del futuro, finisce col proporsi come massa di potenziali acquirenti di merci-messaggi ansiolitici e con l’affidare la propria identità alla capacità di acquisto.

L’insieme di attese e di desideri che si esprime nella disponibilità ad acquistare fa sì che il mercato sia in continua espansione. Ma alla dilatazione inflazionistica dei desideri corrisponde la dilatazione inflazionistica dei costi.
Il mondo è risolto nel mercato, non è più nulla di immediatamente dato, ma è un insieme di cose desiderabili o di messaggi ad esse connesse (l’offerta) che debbono eccitare il desiderio di acquisirle (la domanda).
In questa dialettica di merce-messaggio, il potere d’acquisto, la moneta, diviene metafora del futuro, un meta-messaggio, l’orizzonte entro cui possono aprirsi le merci-messaggi.

Ma, per l’autore, l’umanità si è addentrata in un’epoca di pericolo in quanto ha affidato la realizzazione della sua creatività al sistema delle macchine e attraverso di esse, cioè attraverso strumenti ripetitivi e standard, ha avuto la presunzione di correre verso il futuro e il nuovo. Da questa contraddizione epocale sarebbe nata una situazione nichilista accompagnata da un profondo senso di depressione.

Tuttavia, come in ogni depressione, alla caduta dello spirito vitale si accompagna la preparazione di una nuova fase e il viaggio a ritroso alla ricerca del punto da cui ci si è sviati.

Allo stato moderno dell’età della tecnica, specchio dell’antropocentrismo contemporaneo che riferisce il potere alla forza (delle armi) e alla capacità di dare la morte, l’autore contrappone uno stato che sia la città, la polis, il luogo in cui abitiamo, in cui troviamo l’orientamento e il giusto rapporto tra Cielo e Terra.
E dunque la politica dovrebbe essere una sorta di architettura, l’arte di costruire la città. A tale proposito ricordiamo l’ammonizione del salmista: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi fortificano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode”. Ma mentre le popolazioni che hanno una visione complessa e simbolica del cosmo ripropongono tale visione nella costruzione del luogo in cui scelgono di abitare (Roma, costruita intorno all’altare sacrificale, mundus), le moderne città sono principalmente poderosi gangli commerciali, centri di smistamento delle merci.

Achi potrà allora essere affidata l’arte della politica se non a coloro che sappiano mettersi in contatto con le vere forze creative, che sappiano dunque anche essere ingenui, dal momento che la meschina politica della furbizia non può avere alcun solido fondamento?

Dovremmo dunque assumerci il compito di preparare una comunità che, al pari delle comunità monacali alla fine del mondo antico, sia capace di interpretare la fine del nichilismo e porre su nuove basi la ricerca della ricchezza.

Il saggio, denso di suggestioni che a loro volta si affacciano su inquietanti problematiche, termina o meglio si apre ad un’altra domanda. Potrà l’Europa, l’Occidente, la terra del tramonto, la culla del nichilismo storicista, ritornare all’amore dell’essere?

Potrà ripensare alle proprie radici e alla propria cultura (nel senso pregnante, etimologico del termine: ciò che è necessario per crescere), cioè ai fondamenti della propria identità ?

Annamaria Iacuele

 


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