Nella civiltà dell’immagine, che caratterizza il nostro secolo, sarebbe vano negare la stretta interdipendenza tra la parola e l’immagine, entrambe accomunate da quella intrinseca valenza semiotica che risiede proprio nella mente umana, elaboratrice di pensiero verbale e visuale. Osservare e descrivere sono due versanti di quella funzione cognitiva, che la parola associa tanto al simbolo fonico quanto a quello visivo, e che la società dei mass-media ha utilizzato sempre più per scopi accattivanti, solo in parte ricadenti nel campo dei fenomeni artistici, e solo a certe condizioni.
La fonte convenzionale e l’uso arbitrario della lingua, sono infatti due ulteriori aspetti di quella sfera sociale, in cui anche l’opera d’arte si colloca per funzione e fruizione, sebbene con priorità diverse da quelle della lingua parlata o scritta1.
Lo studio dei sistemi simbolici elaborati dall’uomo è ormai ramificato in tutti i settori delle Scienze umane. L’interesse odierno si volge in modo particolare al linguaggio verbale “strutturato” e alla semiotica2 delle arti, intese anche come “linguaggio visuale”. Nella ricostruzione storiografica quest’ultimo pare essersi dotato di criteri espressivi sempre meno immediati e sempre più complessi, dalle forme elementari dell’arte primitiva, attraverso l’invenzione della grammatica, fino ad elaborare codici e sottocodici, non solo linguistici ma anche semiotici, che regolano tuttora la maggior parte dei linguaggi massmediali.
Non è in questa sede rilevante ripercorrere tutti passaggi, già ampiamente dibattuti, delle connessioni logiche tra parole e segni e dei rispettivi metodi operativi. Fin dalle forme primitive e geroglifiche l’uomo si chiede il come, quali tecniche si mostrino più adatte alla comunicazione sociale. In questa sede ci chiederemo piuttosto il perché della produzione di un testo, in particolare quello artistico, quindi con maggiore attenzione per il linguaggio visuale ed i suoi componenti semiotici, il segno ed il simbolo, cercando di soffermarci brevemente sul senso dell’operare artistico, ricorrendo ove necessario all’uso di un metalinguaggio.
Da almeno un decennio, l’interesse accademico per il mondo dell’immagine ha stabilito singolari ed importanti connessioni tra l’evoluzione storico-sociale dell’essere umano ed il progresso dei suoi sistemi di scrittura e rappresentazione, soprattutto sotto il profilo di una sapiente simbologia, che accomuna linguaggi verbali e visuali.
Il progresso nell’uso di strumenti simbolici viene spesso assimilato all’idea di una crescita dell’umanità, che presenta analogie con l’evolversi del fanciullo verso l’età adulta, comprendendo il suo passaggio dall’utilizzo “esplorativo” di mezzi manuali e materici, a strumenti sempre più “collettivi” ovvero massificati ed artificiali, fino all’uso di congegni funzionanti in base ai codici digitali.
Di questo percorso evolutivo non ci interessano più tanto le fasi storiche, nemmeno l’epistemologia genetica, nè le modalità di apprendimento, quanto piuttosto “il perché”: perché l’uomo crea, con quali mezzi ed a quale costo; quali sono pregi ed rischi della complessità produttiva e quali le loro ricadute sul fare artistico.
Ma soprattutto ci domandiamo quali rapporti vi siano tra la mente umana, la creatività, la pratica semiotica.
Ognuno di questi aspetti ha una grande importanza per lo studio della genesi dell’uomo e per la sua comprensione antropologica, attraverso il fare artistico.
Non si può evitare di considerare quanto l’arte stessa solleciti il desiderio di conoscere meglio l’identità dell’uomo e la sua intrinseca natura, attraverso i segni tangibili della sua presenza nel cosmo.
Così l’analisi semiotica si lega indissolubilmente alle valenze estetiche, insite nelle opere degli uomini di ogni tempo, con le loro innegabili ripercussioni sul contesto sociale di vita, (come avviene nei rituali e nelle iconografie), e persino sull’identità collettiva della persona umana.
Scegliere dei segni per esprimersi è un po’ come scavare dentro la natura delle cose, per trarne quegli aspetti che si rendano funzionali alla significazione. Nel simbolo ciò avviene in modo più immediato che in un segno grafico, algebrico o alfabetico, per il quale bisogna ricorrere ad un codice altamente formale.
Nell’arte avviene che qualsiasi materiale, dalla parola poetica, al pigmento, alla nota musicale, se intenzionalmente strutturato a tale scopo, può rappresentare stati d’animo o intere concezioni dell’essere, scegliendo come veicolo un complesso di segni o addirittura una sola entità semiotica.
Che il veicolo sia il segno, semema o grafema, per esso può “passare” il senso che si intende dare alle cose: un’immagine dell’infanzia, una realtà corrente, un’emozione che non trova parole, la rarefazione dell’aria, la densità della terra, il solipsismo di terre incontaminate, il calore umano, il fruscio di un battito d’ali, la memoria di un lontano passato, oppure un tuffo nell’avvenire che ancora non si conosce. Lo si può conoscere attraverso ciò che nell’arte viene detto metafora, o alternativamente simbologia, processo tanto difficile a definirsi quanto facile a realizzarsi, per chi ne è veramente coinvolto.
Naturalmente ciò che viene conosciuto è differente per ognuno di noi, pur potendosi chiamare allo stesso modo (nudo, natura, materia); quindi diremo che l’oggetto di cui si tratta è indifferente, almeno rispetto alla categoria semantica cui appartiene.
Il conoscibile varia a seconda del taglio prospettico e del modo di conoscerlo: tuttavia, per ognuno di noi, “quel” conoscibile che l’opera ricompone, ha valenza propria ed indubbia intima “realtà”. Il simbolo è astratto ma il suo significato è concreto.
Questo avviene perché l’oggetto dell’arte non è mai illusorio; esso non è nemmeno “oggetto” in senso proprio: l’oggetto dell’arte è infatti lo stesso atto del creare. Nulla di più concreto.
Non saprei spiegare come ciò avvenga, se non tentando analisi separate per ogni frammento, fisico, psicologico, esistenziale, della persona che “agisce” questo processo; peraltro diverso per la persona che ne fruisce.
Tale processo si può affrontare e replicare in molti modi: si può dipingere per una intera vita il “velo di Maya” o rappresentare in tutte le geometrie possibili “le muse inquietanti”, senza desiderare effettivamente di andare oltre l’immagine o il suo impatto emotivo. L’esecuzione dell’opera è soltanto uno dei temporanei “processi pertinenti” di un lungo percorso, che implica dimensioni che vanno ben oltre il “fare l’opera”.
Tali dimensioni del fare arte sono analoghe a “fenomeni”, che implicano necessariamente la dimensione soggettiva, sia nel realizzare l’opera d’arte che nel percepirla come tale.
L’artista può delimitare la propria dimensione e fermare il processo in ogni istante, connotandolo mediante ciò che egli ritiene necessario, come Michelangelo intese nel “non-finito” dei suoi Prigioni, che indicava, a suo modo dì intendere, un processo in sè compiuto.
La fenomenologia dell’arte può comprendere, indifferentemente, cose che si rendono manifeste in natura, ovvero forme di una appercezione immaginifica, oppure aspetti di una ricostruzione illusoria che l’autore rende plastica e materia.
Esse sono, in ogni caso, nel dominio del verosimile e di ciò che coinvolge interamente l’artista come qualcosa di cui non si può dubitare.
I fenomeni dell’arte, con i loro segni e significati, costituiscono dunque “un’epifanìa”.
Come accennavo a proposito della metafora, in alternativa alla simbologia, Il procedimento artistico appare comunque, sia per il poeta che per il pittore, tanto difficile a definirsi, quanto facile a realizzarsi, nella misura in cui il soggetto è veramente coinvolto dalla dinamica dell’arte. Non gli servono certo l’elaborazione teorica né la funzione imitativa, a meno che non si tratti di particolari forme espressive di tipo concettuale o mimetico. Non è necessario che l’artista si impegni, in corso d’opera, ad effettuare una determinata ricerca della funzione storica del proprio operare, né della semiologia strutturale, né tantomeno della tecnica artistica in voga, per comporre ciò che egli desidera. In che modo ?
La modalità primitiva del fare arte è indubbiamente quella gestuale. Analogamente e con lo stesso intento possiamo però impiegare le movenze del corpo come “figure”, oppure utilizzare un drappo colorato, cui attribuiamo una sintesi di valenze simboliche, quali il tessuto, il colore e la forma: in questi e mille altri modi relativamente semplici ed essenziali” abbiamo già espresso un “universo di senso”. Ancora oggi un’operazione del genere si può definire “primitiva”, allo stesso modo in cui lo sono i balli sfrenati di alcuni gruppi giovanili di tendenza o underground, in cui il ballo, completato da effetti coreografici e decorazioni corporali, è affine, sia nei ritmi che nelle simbologie, a quello delle antiche danze tribali, o dei riti sciamanici.
Il concetto di primitivo è qui inteso nel senso di ciò che è primigenio, ovvero insito nella nostra stessa natura di esseri umani.
Il primitivo, ovvero l’espressività di origine arcaica, riassume il senso antropologico del proprio alter-ego, il bisogno di manifestarsi per appropriarsi dello spazio, imporvi la propria corporeità, manifestare ritmi, umori, attese, cromatismi, desiderio di appartenenza e quant’altro. Il segno primitivo è il prolungamento del corpo e della mente, la proiezione psico-fisica, ma anche ambientale, del proprio intendere: un metaforico “spaccato” della propria personalità, ovvero manifestazione creativa del Sé attraverso ed all’interno dell’ ”opera” (modus operandi).
La rappresentazione artistica ha in genere un obiettivo intrinseco, cioè quello di parlare di sé, del proprio modo di vedere le cose, o di una particolare esperienza; lo si fa in modo più o meno diretto, più o meno consapevole.
La rappresentazione della propria sfera espressiva, sia essa di natura intellettuale, cognitiva, oppure emotiva, attraverso quel complesso sistema di segni che costituisce il linguaggio dell’arte, ha l’intrinseco obiettivo di raccontarsi, ovvero di manifestare-rsi.
In ogni caso, attraverso segni o simboli, adeguatamente strutturati, ogni autore può mettere in gioco la libera espressività del proprio intendere, della propria cultura, della propria collocazione socio-antropologica, o semplicemente della propria forma d’arte, qualunque essa sia.
Il gesto acquista valore significativo perché mostra contiguità o discontinuità con il contesto che lo accoglie in una struttura d’insieme. Esso è quindi un segno. Non possiamo negare che il segno, o il sistema che l’uomo vi ha costruito per propria necessità evolutiva, sia parte integrante del quotidiano, anche e soprattutto nella dimensione di una vita sociale sempre più complessa.
Docente di Antropologia presso il Corso Integrato di. Scienze Umane – Università Magna Graecia – Catanzaro –
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Note:
1) Nella pragmatica dell’arte l’elemento della significazione è, genericamente, “prioritario” rispetto a quello della comunicazione.
2) Fenomeni di significazione, linguistici e non, al cui studio hanno contribuito antropologi, oltre che semiologi, studiosi di estetica, filosofi, quali G.H. Mead, S. Peirce e Saussure, Emilio Garroni, T. De Mauro.