Alienazioni

Giuseppe Lampis

 

Il problema nasce in cielo

Nel Fedro emerge che la vita terrena dovrà riequilibrare un’alterazione metafisica. La creazione si presenta squilibrata per una legge necessaria e deve essere completata. (La questione è ben chiarita da Léon Robin nella Notice premessa alla sua traduzione del 1933.)

nikeNel racconto mitico di Platone, le anime – ognuna un cocchio alato con un auriga e due cavalli dal carattere contrastante – corrono in alto, sopra il cielo (nell’iper–uranio), oltre il limite del cosmo del divenire, a conquistare un angolo prospettico atto a conoscere l’intero ordine reale.

Ora, non tutte, o per l’inadeguatezza dell’auriga o per l’incontenibile irrequietezza dei cavalli, sono adeguate alla difficoltà dell’impresa. Sbandamenti e deviazioni totali e parziali avvengono in questo primordiale stato dell’esistenza. Chi fallisce, e sono i più, dovrà scendere in terra e guadagnarsi, dopo varie incarnazioni, di poter tentare ancora. Insomma, scenderà in terra, inizialmente entrando in un corpo di uomo (i successivi dipenderanno dal risultato che saprà ottenere) per cercare di correggere lo squilibrio primordiale.

Platone scherza con i lettori, le cose importanti non si scrivono, eppure la verità è esposta egualmente in maniera tanto plateale che quasi non ce ne accorgiamo: andare su, per l’anima, non era esauriente e definitivo, non serviva a niente se non per diventare capace di afferrare il significato dell’insieme del reale e dell’ordine cosmico e farsene carico.

Il problema, anche di Platone, è il nesso eterno–tempo e la reciproca coessenzialità.

 

Quale vita per risolvere il problema?

Ma ardiremmo immaginare che un’esistenza degenerata possa risolvere addirittura un problema metafisico?

Compito tanto acuto che la massa rinuncia a risalire dal piano inclinato in cui è gettata e si abbandona alla dannazione eterna piuttosto che sacrificarsi. Piuttosto che scegliere di fare della propria vita un sacrificio che espii perfettamente il passato trascendentale.

La soluzione da parte dei rinunciatari, invero, si avrebbe soltanto per una ragione: che l’esistenza bassa sia il pagamento di una pena. Che la sua intrinseca miseria e tristezza sia la soluzione che controbilancia l’errore trascendentale.

Purtroppo, non basta. Un errore non paga un errore precedente. Non può essere la risposta. Bisogna guardare più a fondo l’insieme del discorso e arrivare a capire che le esistenze tristi e degenerate, la maggioranza, stanno in un contesto più ampio che prende significato da esistenze pregiate e rare.

Unicamente queste sono la soluzione, al punto da dare senso a tutta la massa dei vivi e dei morti. Tali i dèmoni custodi veglianti della tradizione arcaica greca (e non solo) di cui parlano Esiodo, Eraclito, Platone.

 

La frattura interna a dio

Per Empedocle (frammento 115) nella sfera divina un grave fatto di sangue rompe la sacra unità, nella divinità opera un criminale assassino.

Nel Fedro di Platone si annuncia che la vita terrena è per riparare un’alterazione metafisica. La creazione è necessariamente squilibrata e deve essere completata.

Il tema risale ai primordi. Il suo nucleo principale è nel cuore arcaico dello sciamanesimo – l’uomo deve aggiustare i guasti del primo creatore – e affiora proprio nella crisi epocale dello spirito paleolitico. Compare in Anassimandro per la filosofia greca, ed era già centrale nelle grandi tradizioni religiose iranica, indiana, semitica.

Dunque: sul livello empirico, terrestre, mondano, dell’esistenza si scarica il destino di controbilanciare una serie di imperfezioni ed errori che si presentano necessariamente nel principio metafisico ultraterreno. Nel linguaggio di Anassimandro, è il destino di pagare il fio e l’ammenda dell’inizio della genesis (del divenire mondano).

In altre parole, dio si sbaglia e l’uomo è chiamato dalla legge universale a correggere lo sbaglio.

Questa, comunque, è una rappresentazione exoterica e di facile percezione; invece, nella riflessione riservata ai filosofi–sacerdoti, dio e il suo dramma sono decifrati come un’alienazione dell’io esistenziale che proietta fuori di sé l’insopportabile.

L’insopportabile che, per essere risolto, dovrà essere riconosciuto proprio e assunto coscientemente.

 

La doppia alienazione

Con ciò, tuttavia, abbiamo solo una faccia dell’intera verità. L’alienazione dell’esistenza terrena, e il compito che ne deriva, implicano un’altra faccia inscindibile. Implicano che nello stato metafisico operi una simmetrica alienazione.

Come l’io terreno, la vita empirica, si raddoppia, esteriorizzata e allontanata, sullo schermo ultraterreno; così la vita divina, ultramondana, ideale, si raddoppia sullo schermo temporale, concreto, e – distinguendo da sé la sua intima natura e facendone un’alterità – si lacera in sé.

Con l’escatologia delle due esistenze (empirica e ideale, terrena e divina) ci troviamo di fronte a una doppia reciproca alienazione. L’una proietta nell’altra il proprio dramma interno.

Dio si aliena nell’uomo e l’uomo in dio.

L’esistenza terrena contempla, inorridita e più o meno riverente, nell’esistenza celeste il problema metafisico che la riguarda e che ne determina il destino sostanziale. Dal canto suo, anche l’esistenza celeste, con ipocrita distacco, osserva in quella terrena una vicenda che ha in essa origine e causa.

Il parallelismo e la relazione intrinseca di eternità e temporalità, di essere e divenire, si occulta a turno riassorbendosi o nell’uno o nell’altro stato di esistenza, ma non per questo cessa di essere il punto critico che giustifica ambedue.

 

Un complesso unitario

Se l’uomo si aliena in dio, anche dio si aliena nell’uomo. L’uomo non potrebbe alienarsi in dio se dio non si alienasse in lui, il processo si compone necessariamente di due vie, in su e in giù, dentro una medesima e unica.

Le due simmetriche alienazioni sono il presupposto dell’avvio del ritorno di ciascuno a sé e in sé, e – alla fine – della ricomposizione del tutto nella sua unità vivente.

Il problema che spinge essenzialmente l’uomo ad alienarsi in dio è il rovescio del problema che spinge dio a proiettarsi nell’uomo per risolvere sé stesso.

Il principio divino si incarna e mondanizza perché ciò in cui si mondanizza e incarna è lui stesso. Si tratta dell’identica ragione per la quale l’uomo corrisponde al principio e apprende di essere esattamente lui («tu sei Questo»).

Ad ogni modo, se l’uomo è il principio, anche il principio è l’uomo. La reciproca speculare interdipendenza è una dinamica essenziale di un sistema unitario.

 

La storia è dike

L’uomo è chiamato a risolvere il problema di dio? Però, l’uomo che risolve il problema di dio è in definitiva dio che si risolve attraverso la sua stessa umanità.

Con siffatta conclusione, che in breve è l’interpretazione di Hegel del cristianesimo, il cristianesimo si scioglie in filosofia della storia. Sicché dio è salvo se l’uomo è salvo.

Purtroppo, in questo quadro, il concetto di salvezza ha un valore puramente approssimativo e metaforico. Infatti, nella convergenza di dio e storia, non c’è più né dio né uomo, e quindi nessuno da salvare.

La storia è sempre dike (ordine, giustizia) pur avendo cambiato nome, sempre è la grande punitrice dalle chiavi che aprono e chiudono (Parmenide 1, 11–14), indifferente ai problemi delle sue marionette e tiene fermo il ruolo superiore di creatrice e giocatrice di dèi e uomini.

 

Alienazioni e conflitto

Del resto, se dio è il problema dell’uomo e se l’uomo è il problema di dio, ciò non sfocia inevitabilmente nel fatto che dio per l’uomo e l’uomo per dio siano anche la soluzione dei rispettivi problemi.

Soluzioni saranno, se mai, per l’uomo l’abolizione del dio alienato e per dio l’abolizione dell’uomo alienato.

Infatti l’alienazione è un’illusione da fugare, per riconoscere che alla fine c’è solo colui che si era sdoppiato. L’alienazione vicendevole è la fase di un conflitto e non di una pacifica compenetrazione.

Dèi e uomini li fa pólemos, il sovrano generatore di ogni ente (Eraclito 53): è in pólemos artefice che si costituiscono con le loro drammatiche dinamiche, allacciati nella – e per – la contrapposizione ineliminabile.

Con ciò torniamo alla questione posta all’inizio, di quale uomo, raro e pregiato, possa effettivamente risolvere il problema.

Ovvero, in termini ancora più radicali, torniamo alla questione se sia possibile che un uomo risolva quel problema, il problema.

Giuseppe Lampis


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