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Il testo del frammento 26, citato da Clemente in Stromateis IV, 141, è parecchio tormentato, ma il restauro di Wilamowitz non è stato modificato in modo convincente e definitivo dalle correzioni e espunzioni che si sono succedute a opera dei vari grecisti.
Le traduzioni in genere non si differenziano granchè, il punto critico essendo piuttosto il senso della frase il quale, come spesso accade in Eraclito, coinvolge l’interpretazione d’insieme. Ne trascrivo alcune, a titolo d’esempio delle oscillazioni.
Diano: «L’uomo accende a se stesso una luce nella notte, quando essa è spenta nei suoi occhi: vivo è a contatto col morto quando dorme, desto è a contatto col dormente.»
Poi Colli: «Nella notte l’uomo accende una luce a se stesso, spento negli sguardi, e vivendo si afferra al morto; sveglio si afferra al dormiente.»
Infine Marcovich (fr. 48): «Man in the night kindles a light for himself, though his vision is extinguished; though alive, he touches the dead, (namely) while sleeping; though awake, he touches the sleeper. / = Marcovich Firenze 1978: L’uomo nella notte si accende una luce, anche se la sua vista è spenta; anche se vivo, tocca il morto, (cioè) mentre dorme; anche se sveglio tocca il dormiente.»
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La notte è euphróne, la benevola, colei che ha un buon cuore, eu phrén: notte potente, sacra, avvolgente, in cui sono integrate physis e psyché, sfera di rapimento e anche di angoscia, momento della solitudine decisiva di fronte alla prova suprema, e per ciò stesso momento di opportunità unica.
L’uomo nella notte sta sul confine da cui si accede al reale profondo, il nascosto sottratto alla vita banale del quotidiano: in quel punto di confine egli è immesso in rapporto di congiunzione da vivo con lo stato di morte e da dormiente con lo stato di veglia.
Nel punto di rottura e di trapasso, il mondo delle apparenze si rovescia e la morte si appalesa come la vera vita e il sonno (ovvero la dimenticanza del mondo delle faccende quotidiane) come la vera veglia.
L’entrata nella nuova sfera di realtà corrisponde alla catastrofe della prima condizione e del cosmo che appare agli uomini massa.
«Verrà la luce e farà giustizia di ogni cosa» (fr. 66).
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Rileggo: «l’uomo che nella notte ha saputo chiudere gli occhi accende in sé una visione di luce: nel sonno egli vive e accende (dà luce e vita a) se stesso morto, risvegliato accende (dà luce, dà vita a) se stesso dormiente.»
Nella notte l’uomo chiude gli occhi: così facendo spegne il fuoco vòlto all’esteriorità e accende il fuoco vòlto all’interno. Chiude gli occhi e suscita il fuoco che porta insito e nascosto originalmente in sé. Nel sonno, e attraverso il sonno, da vivo si mette in contatto e in continuità con il morto. Accade allora come se un vegliante si mettesse in contatto con un dormiente: accade che il vivo fa vivere il morto allo stesso modo e nello stesso tempo che il vegliante fa svegliare il dormiente.
Vivificazione del morto e risveglio del dormiente sono lo stesso evento.
Le spiegazioni realistiche o banalizzanti – la scenetta di un uomo che nel buio si accende una candela e crea una propria luce – sono platealmente inadeguate e fanno da spia del punto di mutilazione al quale si può arrivare a forza di applicare pregiudizialmente lo schema aristotelico che Eraclito sia un «fisico». E ciò, peraltro, senza nemmeno applicare il concetto aristotelico di φύσις‚ ma addirittura quello moderno positivistico di natura.
Tuttavia, anche Guthrie 433 n. 3, che legge Eraclito nel quadro religioso orfico, si arrende e definisce il passo «obscure». Ugualmente Marcovich 244: «the implication of the saying is obscure.»
Eppure è impossibile sottrarsi alla constatazione che il passo abbia un carattere fortemente misterico. Mistero viene dal verbo myein che significa chiudere gli occhi oltre che la bocca: concentrarsi nel buio e nel silenzio per entrare in una zona intima lontana dal quotidiano.
Non solo, qui Eraclito parla esplicitamente di una discesa nel sonno. Se si tratta di un rito, o di un esercizio (in greco, ascesi), ritroviamo una procedura ben nota allo storico delle religioni fin dai tempi più arcaici, l’incubazione. E con ben noti precedenti nella cultura greca, a Creta.
Inoltre qui ci troviamo dinnanzi a un flagrante parallelismo con la filosofia vedica e in particolare con lo stato di «sonno veggente e luminoso / o illuminante», il sanscrito taijasa (cf. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cp. 13, 89 ss.). I rapporti di Eraclito con i Veda sono stati notati in Italia da Paci e studiati dalla Somigliana. Tali rapporti vanno oltre la questione della via del sonno e investono più in generale la teoria vedica del senso della vita quale debito e la metafisica indiana del sacrificio, temi dei quali trattiamo in altra parte.
Il passo 26 è riportato da Clemente, lo stesso autore che indica come Eraclito si rivolga alla platea dei seguaci dei riti misterici (fr. 14, «a vaganti di notte, maghi, bacchi, menadi, misti»). Clemente è incline a fare di tutta l’erba un fascio e mette insieme una folla di entusiasti, ciò nonostante non si deve trascurare che, sia pure in maniera indiscriminata, ci è testimone di una tonalità di fondo.
Entrare nella notte, in euphróne.
Eraclito non usa mai il termine νύξ nyx che indica la tenebra primordiale del mito, la matrice universale con un che di funesto, bensì usa εὐφρόνη, la benevola. Euphróne appartiene alla sintesi giorno notte, al cosmo in atto e non ad un illud tempus caotico (fr. 67, «il dio è giorno notte…»; fr. 57, «Esiodo non aveva capito che giorno e notte sono la stessa cosa.»)
Euphróne è il buio accogliente, sereno, ricco e propizio di opportunità.
Nel buio della benevola l’uomo chiude gli occhi.
Si tratta, beninteso, dell’uomo che sa chiudere gli occhi e volgersi in direzione inversa rispetto a «ciò che vediamo a occhi aperti» che «è morte» (fr. 21).
L’uomo chiude gli occhi e realizza una transe di tipo sciamanico: si separa dal mondo esterno ed entra in un livello profondo, nascosto ai più, oscurato durante il giorno. Egli raggiunge uno speciale distacco, lo stato di «sonno visionario», ecstatico.
Entrando in quello stato, egli si mette in rapporto con lo stato di morte, gemello del sonno, e allora egli «accende» il morto: allo stesso modo che ha potuto e saputo accendere la luce per sé e in sé nella notte propizia, egli accende il morto che è in sé e lo fa vivere. Ma, accendere il morto equivale a svegliare il dormiente. In altre parole, il raggiungimento del sonno luminoso, vegliante e visionario, realizza il suscitamento del morto.
Eraclito usa tre volte il verbo háptomai, entrare in contatto, aderire, toccare, accendere, stimolare; lo usa per la luce da parte dell’uomo, per il morto da parte del vivo, per il dormiente da parte del vegliante. Il verbo è sempre polisenso in ciascuna delle posizioni, non indica mai un’azione unilaterale bensì con l’azione in primo piano indica le altre sottese e reali. Con una sola e medesima procedura colui che tocca, compiendo il rito in questione, altresì accende e vivifica e risveglia.
La procedura avvicina alla morte attraverso il sonno con una transe iniziatica atta a volgerla in vita.
Il vero è che la morte non è morte, eppure per scoprirlo e «viverlo» occorre una ascesi aristocratica del sapere, un’anima non «barbara».
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«La φύσις ha per inclinazione preferita di stare nel nascosto» (fr.123).
Per conoscere e sapere, occorre perciò andare dove essa si trova, vale a dire dietro il manifesto, nel rovescio del mondo apparente. Del resto «il manifesto inganna… » (l’episodio di Omero che cieco non sa sciogliere l’indovinello dei ragazzi che si spidocchiano, fr. 56) e, abbiamo già detto, «quanto vediamo a occhi aperti è morte…» (fr. 21).
«Il termine dove arriva l’anima pensante non si trova andando…» (fr. 45), non si trova andando né in orizzontale né tantomeno in verticale ovvero in nessuna direzione ivi compresa «l’interno» della circolazione del sangue come ha acrobaticamente tentato Marcovich (fr. 67, 366 ss.).
Si trova al contrario dove la physis sta nascosta sottratta alla vista superficiale. Infatti «l’armonia nascosta è più forte di quella che si vede» (fr. 54).
In quella che viene riconosciuta come l’introduzione al suo libro, Eraclito enuncia il suo programma: «… gli uomini massa non capiscono questo lógosneanche dopo che l’hanno udito, io invece spiego ogni cosa individuandola secondo la sua natura (physis) e mostrandola allo scoperto come è.
Gli uomini massa fanno le cose a rovescio (vivono nel rovescio della verità e della realtà ): non colgono ciò che fanno da svegli e si dimenticano di ciò che fanno dormendo» (fr. 1).
Quest’ultima frase da me sottolineata è fondamentale per intendere dalla bocca di Eraclito il suo personale programma.
Bisogna vivere il sonno che non dimentica e che resta vigile e lucido, affinchè lo stesso stato di veglia quotidiana non sia falso e apparente bensì effettivo.
Io, egó – si vanta Eraclito –, io so andare nel livello in cui la realtà si nasconde (nel V secolo a. C. in Grecia il termine physis/natura equivale a realtà ).
«Ho chiesto il responso a me stesso» (fr. 101).
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Per cogliere il reale è necessario calarsi dentro di sé e cogliere ciò che, sotto lo scorrere del fiume, è invece permanente e fermo.
Bisogna pertanto rendersi simile a ciò che è permanente e fermo. Un’impresa difficile, aristocratica, severa, non comune, iniziatica.
Infatti ciò che è permanente e fermo non sta distinto a parte ma sta nel movimento e nel mutamento. Il sapiente è colui che cavalcando il mutamento sa trovare la quiete in cui si vede la verità del movimento stesso.
Lo riferisce un grande interprete antico, molto vicino all’ispirazione del pensiero vedico, Plotino. I molti secoli che lo dividono dall’efesio non hanno impedito l’intelligenza. Il rapporto con la verità non ubbidisce alle sequenze unidirezionali dello storicismo. Siamo davvero sicuri che le idee si generino dalle precedenti? I pensatori non stanno in fila uno dopo l’altro nella maniera dei paragrafi dei manuali per le scuole, è più probabile che incontrino un proprio simile su strade dimenticate o lontane.
Questa la citazione di Plotino: «mutando riposa» (fr. 84a).
Una volta discesi nel profondo, nel bathys che caratterizza il lógos dell’anima (fr. 45), finalmente si raggiunge il «totalmente altro», il Ganz Anderes, «ciò che mai tramonta» (fr. 16), la luce che mai si spenge.
È la luce stessa o fuoco semprevivo che accende e spegne le misure (fr. 30), è la physis che crea il kósmos, l’ordine, secondo la legge delle leggi, la legge di ogni legge (fr. 114).
Fr. 108: «di quanti ho ascoltato i discorsi, nessuno era arrivato a capire che il Sapiente (sophón) è κεχωρισμένον kechorisménon (separato, completamente a sé e diverso, il rovescio)».
Il Sapiente, la Sapienza stessa, sta in definitiva «su un altro piano.»
Bibliografia dei testi citati
Giorgio Colli, La sapienza greca III. Eraclito, Milano 1980
Eraclito, I frammenti e le testimonianze (a c. di C. Diano e G. Serra), Milano 1980
Réné Guénon, L’Homme et son devenir selon le Vêdânta, Paris 1925, tr. it. L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, Milano 1992
William Keith Chambers Guthrie, A History of Greek Philosophy I, Cambridge 1962
Miroslav Marcovich, Heraclitus, Greek test with a short commentary, Sankt Augustin 2001/ed. 2a
Enzo Paci, Storia del pensiero presocratico, Roma 1957
Ada Somigliana, Monismo indiano e monismo greco nei frammenti di Eraclito, Padova 1961
La numerazione dei frammenti è quella tradizionale di H. Diels e W. Kranz, DieFragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951
Questo saggio sintetico è il paragrafo di uno studio molto ampio, lo pubblichiamo perché rappresentativo delle linee fondamentali di un’interpretazione dell’Oscuro, come era soprannominato Eraclito.