Heidegger al bivio

Giuseppe Lampis

… «sapiente» mi pare un nome grandioso, giustificabile solo per un dio,
invece un nome del tipo «desideroso del sapere»
(filo-sofo) potrebbe definire meglio il piano in cui si trova
.

(Platone, Fedro 278 d)

 

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Il presupposto di Heidegger è che quando un pensatore (autentico) muta la rotta non è il pensatore ma la verità ad aver mutato volto.

La verità viene sempre dall’alto, per così dire, da un piano esente dal divenire in quanto una verità che diviene è una contraddizione in termini. La verità, che deve avere per intrinseco carattere la medesimezza e la immodificabilità, non è creazione umana e di nessun altro, non è qualcosa che possa subire l’azione dell’uomo o qualsivoglia azione.

Il pensiero umano può solo riceverla. Va in siffatto modo ugualmente con l’idea di Platone e con l’alétheia di Parmenide, nonché con l’alétheia di Heidegger nonostante egli ritenga che Platone abbia umanizzato il criterio della verità.

HeideggerQuesto è il presupposto implicito nelle interpretazioni di alétheia quale scoprimento o svelamento. E questo, correlativamente, il presupposto che sottende la tesi che gli «amici della sapienza», a partire da Platone, abbiano cominciato a fraintendere l’essere inquadrandolo entro lo schema deformante soggettivistico e antropocentrico. Infatti, la parabola che comincia da Platone è definita da Heidegger «il destino della metafisica», un destino, un «invio», originato dall’essere, al quale l’umanità non potrà sottrarsi finchè l’essere stesso non vorrà concluderlo.

E però, a dispetto di Heidegger, non bisogna confondere la forma con i contenuti. In Grecia non c’è soluzione di continuità tra i primi filosofi e i postsocratici o postplatonici quanto al culto del sapere. L’avvento del primato del sapere ha la forza di una nuova religione che irrompe scacciando ciò che trova. Fino dall’inizio, all’ascesa del valore del sapere, tutto il resto si mette a ruotare attorno a questo nuovo centro. Non c’è frattura tra gli iniziatori e i seguaci di questo culto quanto al valore attribuito alla via del sapere. Se mai si può verificare una diversità e talora un contrasto di soluzioni, ma sempre interni alla stessa impostazione di fondo: diversità e contrasti non configurano mai una fuoruscita dal paradigma universale che contempla la verità come evento di un piano trascendente.

Certo su questo non c’è nessuna diversità tra Parmenide e Platone. Perfino la contrapposizione tra i teorici della verità assoluta e i cosiddetti sofisti, Protagora e Gorgia in particolare, andrebbe ripensata, stante che la polemica del Socrate platonico potrebbe avere frapposto una lente deformante sulla loro effettiva dottrina.

Heidegger segue troppo da vicino Nietzsche, Platone non introduce affatto la frattura tra sapere immediato e semplice amore del sapere. Non c’è un’epoca di mistica presa diretta della verità e un’altra di faticosa mediazione. Purtroppo succede quasi il contrario, che le rivelazioni dei primi filosofi non si capiscano bene, probabilmente perchè essi «ci trattano come bambini».

In definitiva, se è sempre l’essere o la verità in persona a decidere i modi e i contenuti della sua rivelazione, non può esistere alcuna frattura: per l’essere non c’è un prima e un dopo, l’essere si nasconde e si rivela ab aeterno. Ciò che avviene nel tempo non lo separa da se stesso. Il tempo manifesta le forme della sua sempiterna vita.

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La storia della filosofia ha investito criticamente la separazione e la contrapposizione tra soggetto e oggetto, con un duplice risultato, o la riduzione dell’oggetto al soggetto o inversamente la riduzione del soggetto all’oggetto. Tuttavia né con l’idealismo né con il realismo possiamo ritenerci retrocessi al bivio da cui parte, per Heidegger, lo sviamento.

Inoltre, la destrutturazione della soggettività, e correlativamente della oggettività, in una trama continua di relazioni reciproche, nonché il ripensamento dei due concetti nel quadro della biologia e delle scienze, tutto ciò avviene all’interno della prospettiva in atto che resta pur sempre quella che ha concepito gli eónta (gli essenti-presenti) come «cose».

Si tratta della stessa prospettiva che ha sovrapposto all’essere il campo di interesse dell’uomo, sicchè gli eónta sono oramai solo ciò che si presenta alla sua capacità di manipolazione in questo campo.

È possibile accantonare questa prospettiva? È possibile ricevere l’essere senza pretendere di deformarlo nell’ottica distorsiva e alienante della volontà di potenza?

Invero, per Heidegger, non è stata la pretesa della ybris umanistica a respingere l’essere; al contrario, quella pretesa è il rovescio di un destino che sfugge all’uomo e lo determina: essa ha potuto sorgere e gonfiarsi perché l’essere ha offerto spazio, ritirandosi.

Quella di Heidegger non è precisamente la vecchia tesi biblica che Dio fa impazzire coloro che vuole perdere, ma ci siamo vicini. In ogni caso, essa richiama un arcaico sfondo tragico e una colpa che pesa sull’esistenza in quanto tale. Esistere è un essere-gettati.

Nella famosa intervista del 1967 a Der Spiegel, Heidegger afferma: «oramai solo un dio ci può salvare.» In effetti, non regge che l’essere «si ritiri» a un certo punto: l’essere è prima o sopra il tempo e il suo ritirarsi nel mostrarsi appartiene alla sua natura originaria. Questo significa anche che l’essere non è irreparabilmente lontano e che sta «dietro» l’attuale dilagante occupazione del mondo da parte del destino della tecnica e della «cosa».

Accogliere e accettare l’essere in modo originario, oltre e nonostante questo destino, significa, oggi e soprattutto oggi, accettare il suo tenersi dietro, lontano, nascosto. La vita autentica, la vita che si dispone all’ascolto del profondo di questo destino, è, oggi, la vita che vive e muore in questa lontananza. Heidegger dice: «che muore in questo tramontare.»

Dice «tramontare» perché allude a un significato profondo, epocale, insito nel nome di Occidente, la Abendsland, la terra del tramonto.

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La tesi di Heidegger sui greci è che essi, all’inizio dell’Occidente, fossero agli antipodi esatti della posizione o del destino che sta alla base della civiltà della tecnica.

Come la civiltà della tecnica fa perno sul primato del soggetto, così i primi pensatori greci avevano un’intuizione del mondo totalmente desoggettivizzata. Il mondo che rimbalza dalla posizione che fa centro sul soggetto è considerato oggetto e questo, ad avviso di Heidegger, è un errore, uno sviamento. Il mondo non è oggetto e non è neanche mondo nel senso della metafisica, ovvero non è la totalità degli oggetti.

Ciò che è, – tὰ πάντα, tὰ ἐόντα – per dirla con i nomi usati dai primi filosofi greci, è semplicemente «essere», un «aprirsi» che chiama l’uomo ed esige che egli si lasci tenere in esso. Lo spogliarsi della ybris antropocentrica e la desoggettivizzazione non si traduce quindi nella riduzione dell’uomo a oggetto. Non ci sono oggetti per i primi greci; nella φύσις‚ non ci sono oggetti, non sono tali né le cose né le piante né gli uomini.

Non è facile recuperare la forma in cui comprendere un orizzonte nel quale non ci siano né soggetti né oggetti.

Un’età completamente scevra dallo spirito della tecnica potrebbe sembrare una sorta di illud tempus paradisiaco, un puro mito, un’età dell’abbondanza spontanea e del disinteresse pago di sé. Potrebbe sembrare qualcosa di simile alle sfere descritte da Lévy-Bruhl o sognate da Gauguin, ad esempio; ma Heidegger non ha niente a che vedere con le correnti affascinate dal «selvaggio», dal primitivo, dall’esotico.

L’Occidente sviato e costruito sul perno soggetto-oggetto non si limita all’Occidente geografico, e l’Oriente geografico non è esente dal destino della tecnica a nessun livello. Il destino della tecnica è planetario.

Per trovare l’uscita da questo avvolgente destino bisognerebbe tornare sui propri passi fino al punto in cui in Occidente, in Europa, in Grecia, nel punto in cui inizia l’Occidente attuale, è stato imboccato il ramo sbagliato del bivio.

Tuttavia, provando a fare uno sforzo di immaginazione, che cosa resta se togliamo il soggetto, non solo il primato del soggetto, ma il soggetto stesso? Togliere il soggetto non vuole dire togliere l’uomo bensì fare riemergere un rapporto dimenticato dell’uomo con l’orizzonte degli ἐόντα.

La proposta di Heidegger è di prepararsi a concludere la secolare parabola della ύβρις, di prepararsi ad uscire dall’universo della ύβρις‚ che ha occupato il pianeta. Per uscire da questo universo dominante non serve una svolta etica, una svolta che dovrebbe fare appello al soggetto, se ne esce invece per l’avvento di un salvatore più alto dell’uomo perché l’uomo è oramai ingabbiato in un destino dal quale non può liberarsi per sua volontà e nel quale, facendo leva sulla volontà, si avvolgerebbe sempre di più.

In altri termini, il pensiero di Heidegger solleva il tema e il problema del ciclo. Ora, il problema del ciclo è precisamente il problema del rapporto tra essere e tempo. Se ne conclude che Heidegger non ha fatto nessuna svolta effettiva negli anni 30, nessuna Kehre, egli ha girato attorno allo stesso pensiero senza mai mollare gli ormeggi.

Heidegger non pensa che si possa uscire dal tempo per la ragione che il tempo non è altro che il presentarsi dell’eterno. E, quanto all’eterno, evidentemente non è materia di decisione se starci o non starci. Se mai fosse possibile, si potrebbe unicamente decidere «come» starci. Sennonchè perfino il «come» è deciso altrove.

Ne consegue che c’è un solo modo di vivere a fondo la propria vita: scoprire il senso della decisione presa altrove.

Giuseppe Lampis


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