La tragedia dell’apparenza
La profonda consonanza e unità di tragedia e filosofia iniziale sta nell’avvento della distinzione tra realtà e apparenza.
Che cosa questa distinzione voglia dire per i primi filosofi, sia per gli jonici sia per Parmenide ed Eraclito, sappiamo; nella tragedia di Eschilo la distinzione– opposizione riguarda il movente dell’agire umano e la radice della decisione tra giustizia (che è la realtà vera per l’uomo nuovo, Snell 162, v. bibl.) e convenzioni consuetudinarie.
Questa distinzione– opposizione è irreversibile.
Lo scivolamento dell’apparire dalla parte del negativo e dell’inganno è tragico. Infatti nell’età precedente l’apparire era lo splendore della luce del sole, il divino, il dispiegamento dello spirito olimpico, il theos era il cielo aperto, Zeus la luce del giorno radioso (come l’indiano Dyaus e il germanico Ziu).
Nel presente invece l’irreparabile è accaduto, una separazione si è consumata, il dio ci inganna?
Il dio vero si è nascosto, sentiamo la sua presenza nel punto (tragico) della decisione sulle questioni supreme, ma quel punto è nel profondo, oscuro.
Ruolo dell’io nella crisi dell’apparenza
Quand’è che l’apparenza entra in crisi e assume il valore di inganno, problema, male?
Nella religione mazdea il processo si vede ormai giunto all’apice: il mondo della natura nella sua totalità è votato alla distruzione da parte del dio della verità. Il mondo è una creazione alternativa negativa da abolire affinchè la luce perfetta dell’origine possa affermarsi di nuovo.
Nella religione vedica l’uomo deve distruggere il mondo che è una trappola metafisica. Per distruggerlo egli deve distruggerne e sacrificarne la radice che sta nel proprio io. L’apparenza ingannevole, la ruota del tempo, la maya, è una proiezione dell’io deviato che si è eretto a principio creatore alternativo.
Nella filosofia greca, l’io del sapiente ha il compito di sgombrare il campo dall’errore metafisico dell’apparenza.
Tutto ciò, sommariamente considerato, ci sollecita la domanda: l’apparenza entra in crisi perché l’io si arroga il diritto di rifare il mondo? Oppure l’io si sente investito del compito universale perché l’apparenza è già in crisi per un evento suo intrinseco indipendente?
Riformulo la domanda: l’immediatezza va in crisi perché viene assalita dalla pretesa dell’io o la mediazione dell’io entra in gioco costretta dall’avvenimento preliminare dell’eclisse dell’immediatezza?
Ancora: lo sciamano (l’io paradigmatico e per eccellenza), e la gnosi che ne è la proiezione, è colui che crea il problema o, invece, è colui che assume il compito di risolvere il problema?
Gli dèi olimpici tramontano irritati dall’inquietudine e dalla ybris colpevole che fa nascere la filosofia o la filosofia nasce perché gli dèi olimpici si sono ritirati per loro insondabile decisione?
Il passaggio avviene nella e con la tragedia greca. È in Grecia che il passaggio ha il tono del tragico. Il mito non è più la struttura archetipica della realtà ma diventa la struttura archetipica dell’io. L’interesse si sposta sulla conoscenza dell’io e del suo fine. La realtà diventa totalmente astratta, diventa un concetto teleologico (il bene, Snell 165).
Entriamo più a fondo nella questione.
I Veda, Esiodo, il Genesi, l’Edda e altre antiche tradizioni riferiscono di un destino sovrastante di inarrestabili gradi di decadenza.
Di chi è opera questa decadenza? È la realtà che decade e decadendo produce umanità difettose in misura crescente? O è l’umanità che decadendo produce mondi via via sempre più difettosi?
Eppure, dobbiamo chiederci, potrebbe l’umanità avere un simile potere? Potrebbe l’uomo avere il potere di mettere in crisi la realtà e trasformare l’immortale mostrarsi della pura luce in menzogna infernale, mortale e demoniaca?
Consideriamo il risvolto di questa domanda: è la realtà fatta in modo tale, nella sua più intima costituzione, da poter essere mutata di segno fino al punto da assumere il valore di non realtà ?
L’apparenza ha una struttura tale da offrirsi all’ambiguità ? Il divino è talmente molteplice e cangiante da contenere nel suo destino anche il «non»?
Il tramonto degli olimpici
Il tramonto degli dèi olimpici è intrinseco del loro apparire. Nel sorgere della pura luce si tiene in lontananza la notte dalla quale la luce sorgendo è uscita, come dice Esiodo nella Teogonia. La luce ha un passato infinito.
L’umanità demoniaca e titanica alternativa agli olimpici è la notte dalla quale essi sono usciti trionfanti.
Se noi guardiamo gli dèi olimpici dalla nostra condizione attuale, dalla caverna in fondo alla terra, essi sembrano ombre evanescenti e inganno sognato. Però dipende dal fatto che noi abbiamo la testa stravolta all’indietro.
Gli dèi olimpici ci hanno spinto in illo tempore nella caverna per instaurare l’ordine della bellezza della luce.
Inutile e vano per noi sarebbe tentare la scalata. Per quanto possiamo salire sul tetto del mondo, saremmo certamente più in alto di coloro che sguazzano in basso negli stagni a livello del mare, ma resteremo incommensurabilmente lontani dal sole. Rispetto all’altezza del sole, lo scarto di ottomila metri tra l’Everest e il Mar Morto è una ridicola nullità.
Dovremo aspettare che vengano a riprenderci. Passando intanto nella loro presenza lontana.
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La crisi dell’apparenza è un aspetto che appartiene all’essenza stessa dell’apparire. L’apparenza è per intima natura mutevole e molteplice. Nella sua mutevolezza rientra anche l’esperienza dell’uomo che vede e vive come crisi la mutevolezza stessa.
Quando Eraclito dice che per il divino ogni cosa è giusta (fr. 102), dice che è giusto anche ciò che l’uomo considera ingiusto, ma non solo: dice che è giusto anche che l’uomo veda e viva l’ingiusto.
E la sentenza di Eraclito riprende il concetto di Anassimandro per il quale le adikie (le ingiuste sopraffazioni di un ente nei confronti di un altro) avvengono secondo necessità. Tali ingiustizie o scompensi si compensano reciprocamente per il decreto del tempo che restaura la giustizia imponendo ad ogni ente di restituire ciò che nascendo ha accaparrato per sé stesso.
Il mondo dell’apparenza è giusto, e lo è proprio in quanto risolve complicati e necessari scompensi interni.
L’età dell’oro dell’istinto
L’età della pienezza dell’apparire è l’età dell’oro dei sensi e dell’istinto.
La perfetta trasparenza e consonanza con l’immediatezza è l’età nella quale la mente dell’uomo sta in armonica coerente continuità con la sua biologica apparenza. In quella età non c’è conflitto tra io ed essere perché non c’è conflitto dentro l’uomo e l’io non è diverso dal suo essere.
L’uomo che vive con accettante gratitudine l’essere che appare nell’immediatezza è l’uomo che vive la pienezza senza fratture del suo stesso essere.
È l’uomo che vive di ciò che l’essere è in lui e che in lui vuole apparire.
Questo stato potrebbe venir giudicato regressivo, quasi fosse una sorta di assorbimento dell’uomo nel grado basso dell’animalità grossolana. Ma le grandi tradizioni hanno considerato gli animali dell’inizio simili agli dèi.
Una applicazione o espressione di questa credenza sta nello zodiaco, sta cioè nella visione del firmamento stellare in forma di processioni di zodia, animali.
L’animale è prossimo al divino per avere sposato la mutevolezza alla permanenza. La caratteristica dell’animale è che non si avvita nella singolarità, in ogni singolo animale non prevale la singolarità bensì il modello e l’universale permanente.
L’uomo dei primordi che abita il paradiso – dal paradiso degli iranici a quello biblico – è signore degli animali e delle piante. Non signore, però, nel significato di proprietario prepotente. Egualmente a quanto ci risulta dalle figure di dee primordiali della natura, le potnie theron, l’uomo del paradiso è signore perché è con essi e di essi il primo rappresentante.
Egli è il vivente allo stesso modo che l’intero cosmo è un vivente. L’uomo è innanzitutto il vivente, l’animale. E in illo tempore, allorchè l’apparenza è la vita, e la vita è la realtà, l’uomo è coerente e armonico con l’apparenza.
Eraclito e i sensi
Che idea ha Eraclito dell’apparenza?
Eraclito ha una posizione ambivalente verso lo spirito olimpico, è certamente critico ma può anche sembrare teso ad un recupero. Da una parte, il suo giudizio su Omero, l’esemplare esponente dell’epica olimpica, è sferzante; dall’altra, non respinge Zeus, pur precisando che la sua essenza deve essere interpretata meglio oltre il nome che l’epica e la tradizione gli ha assegnato.
Circa il ruolo dei sensi abbiamo i frammenti 101a («gli occhi sono testimoni più attendibili degli orecchi»), 55 («preferisco le cose che ci vengono dalla vista, dall’udito e dalla percezione immediata») e 107 («cattivi testimoni sono occhi e orecchi in coloro che hanno anime barbare – anime che non intendono il linguaggio di quei sensi – »).
Questo gruppo di frammenti prospetta una valorizzazione della capacità di presa diretta dei sensi (e qui si direbbe, con Reinhardt, Eraclito va contro Parmenide). Valorizzazione, beninteso, alla condizione che si tratti dei sensi di colui che abbia intelligenza e un giusto orientamento del volere.
In ogni caso, nella discussione se Eraclito sia o no empirista taglia la testa al toro l’importanza decisiva da lui assegnata al flusso, allo scorrere, al cangiamento del mondo reale: non sarebbe stato possibile senza un apprezzamento preliminare del ruolo fondamentale dei sensi nell’accoglimento della realtà empirica.
Inoltre il passo 86 («(il divino) sfugge al riconoscimento degli uomini per incredulità, perché mancano di fidanza») ci dice che per Eraclito, se è vero che la realtà tende a nascondersi (fr. 123), il sapiente deve a maggior ragione volgersi verso di essa con la disposizione giusta, e questa è pistis.
La traduzione di pistis con la parola cristiana fede è erronea. In Eraclito vuol dire ad-tenzione, affidamento, consenso fidente, fedeltà, accostamento e abbandono sentendo che non inganna.
Il dio, infatti, si mostra in segni visibili e non inganna, sta al sapiente guardare ad essi sintonizzandosi sulla stessa lingua (con anima non barbara, da iniziato).
Opera citata:
Bruno Snell, Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen, 19553, tr. it. (Vera Degli Alberti e Anna Marietti Solmi) La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 2002 (1963¹). In particolare v. il cp. VI, Mito e realtà nella tragedia greca, 141 – 165.