Tavola Rotonda promossa da
Mythos – Istituto di Psicologia Analitica e Psicoantropologia Simbolica
Bracciano di Roma 15 dicembre 2009
Le fiabe sono, prese tutte insieme,
nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane,
una spiegazione generale della vita,
nata in tempi remoti e serbata
nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi.
(Italo Calvino)
Relatore |
Titolo |
Chiara Mantini | La fiaba mediatrice tra culture ed esperienze umane |
Piera Mastantuono | Una vita attraverso la fiaba |
Maddalena Muzi | Cappuccetto Rosso e i bambini del nido |
Maria Rita Albanesi | La fiaba e il disagio psichico del bambino |
Annamaria Iacuele | L’uccello d’oro – Spunti per riflessioni |
Fabio Marzocca | Pallinux: una fiaba nel mondo digitale |
Serena Leccese | La fiaba e l’incontro con gli altri e il mondo |
Il nostro istituto, già nel nome Mythos vuol sottolineare il senso fondante e originale della parola, creatrice di mondi, e della possibilità propria ed esclusiva dell’uomo di dire, di raccontare se stesso, il mondo, la vita e il suo enigmatico significato, di creare ponti, attraverso il simbolo, con ciò che non è dicibile, che non possiamo pienamente esprimere, che neppure comprendiamo, ma che pur fa parte del nostro destino.
Ai nostri giorni si avverte diffusamente il bisogno di andare oltre il nulla che tutto sembra aver inghiottito o voler inghiottire, la necessità di un ritorno a valori che paiono accantonati o smarriti in un mondo in cui prevale la quantità sulla qualità, ciò che è tangibile e misurabile rispetto a tutto ciò che nella sua intangibilità e incommensurabilità fa parte dell’aspetto più significativo della vita dell’uomo.
Per questo crediamo sia necessario riuscire nuovamente a dar voce al nostro desiderio di entrare in contatto con ciò che può essere nominato solo con esitazione, con l’indicibile, il mistero, il sacro, la fede, la grazia, la speranza, la verità. Di ciò parlano le fiabe tradizionali con la freschezza di una voce iniziale che ci giunge da un lontano passato e che magicamente sa ancora evocare un mondo in cui l’uomo incontrava nella natura, l’anima mundi e il divino che l’abitava.
Fiabe e iniziazione
Ogni fiaba perfetta è una pietra angolare nell’educazione di un’anima perché essa è nata dall’amore e dall’attenzione propria di chi vuole insegnarci a riconoscere ciò che soltanto ha valore e esiste veramente anche se appartiene all’Invisibile.
Nelle società tradizionali i riti di iniziazione costituivano l’aspetto cruciale della vita. Attraverso di essi il bambino diveniva un uomo o una donna, partecipe dei diritti e doveri della sua tribù, in contatto con le tradizioni dei suoi antenati e con i misteri della vita e dell’aldilà.
Il compito di ogni iniziazione nelle società tradizionali è insegnare a coglierere un’altra dimensione della vita. Ciò avveniva attraverso l’esperienza psicologica emotiva esistenziale di entrare nel mondo dell’Invisibile (chiamato Ade, mondo infero, mondo degli antenati, cielo ecc.) e ricevere la rivelazione del mistero, del senso profondo del tutto. Trasformato da tale esperienza fondante l’iniziato, divenuto adulto, tornava alla vita nella propria comunità serbando nel proprio intimo l’insegnamento ricevuto per poterlo poi trasmettere alle nuove generazioni.
Le fiabe, come è stato detto da illustri studiosi che, dall’800, si sono dedicati allo studio di questa materia così vasta e così profonda da perdersi nella notte dei tempi, proprio al primo sorgere della coscienza umana, ripropongono e comunicano attraverso il racconto, simbolicamente, un’esperienza iniziatica. E chi sa ascoltare diventa in realtà partecipe di un rito iniziatico, viene trasformato nel più profondo dell’animo e diviene un uomo o una donna nel senso più pieno.
Le Fiabe e il simbolo
Le fiabe si muovono in maniera olistica, cercando di tutto unire, di tutto com-prendere, corpo, anima e spirito, cielo e terra, visibile e invisibile. Rispondono alla legge del simbolo che si muove non secondo una logica lineare, orizzontale, di causa ed effetto, ma secondo l’analogia che guarda alle corrispondenze tra piani diversi. Fanno riferimento a un sapere intero, non a una scienza sempre necessariamente parziale e la cui modalità separativa è già chiara nella etimologia (dalla voce verbale scindere).
Il simbolo tiene insieme differenti livelli di realtà che sembrano talvolta contraddirsi, ma che si ricongiungono nel significato più alto dell’immagine, un significato spirituale: è questa la coincidentia oppositorum di cui parla il grande umanista Cusano e più tardi C. G. Jung. Il simbolo è plurisignificante e proprio nella molteplicità di interpretazioni risiede la sua superiorità rispetto alla de-finizione concettuale che de-limita il reale in un contesto logico; resta sempre aperto, pur senza essere impreciso, è una “chiave” che ci permette di accedere alle realtà, alle verità, che oltrepassano la ragione.
Basterà ricordare un oggetto che compare spesso nelle fiabe: lo specchio (come il celebre specchio in cui la matrigna di Biancaneve scopre verità per lei amare), simbolo dei simboli dove si riflettono in maniera figurata le idee non riducibili, gli archetipi, ciò che sempre fu, è e sarà.
C’è un legame etimologico, e dunque profondamente vero, fra fiaba, favola e fato (fabula e fatum derivano ambedue da fari, dire). La nostra “più libera verità – scrive Susanna Mati coincide con la fabula: lo stesso è dire che la verità deve essere creata, deve essere cantata”. La Musa, come ci ha detto Parmenide nel suo poema, accompagna il sapiente nel viaggio verso la Verità, dea luminosa e raggiante. E se talvolta la fiaba come ogni creazione poetica ci appare ingannevole, lo è forse soltanto perché gli uomini non ne sanno cogliere il senso nella sua completezza, il senso ultimo, come quando non sanno decifrare il responso dell’oracolo. Perché ogni verità che si rivela, nel momento in cui svela, toglie un velo, ne mostra anche un altro ancora da svelare, in un continuo rimando. Così la favola nella narrazione ci sospinge nel vero e oltre il vero, in quella terra di Hurqualia dove i corpi diventano spirito e lo spirito si fa corpo, dove siamo indotti a credere che sia possibile vincere le leggi inesorabili della necessità ‘perché vuolsi così colà dove si puote’.
Il mondo delle fiabe è il mondo dell’immaginazione creativa. Il termine immaginazione ancora purtroppo risente della connotazione negativa attribuitagli in epoca positivista per cui lo sostituiamo con il termine immaginale che ne sottolinea la dimensione creativa e spirituale. Tutti gli studiosi del nuovo spirito antropologico (G. Durand, C. G. Jung, Mircea Eliade) hanno dimostrato che l’uomo è anzitutto Homo symbolicus e che alla base di ogni attività razionale di ogni scoperta scientifica, di ogni attività psichica e spirituale dell’uomo c’è l’immaginazione creativa, l’immaginale.
Quando siamo nel mondo immaginale delle fiabe tutto ci appare come mosso da un misterioso regista supremo che tesse il Destino dei destini e scrive la Fiaba delle fiabe. Nelle fiabe la sorte meravigliosa va a colui che pur senza speranza si affida all’insperabile. Ce lo aveva detto anche il grande Eraclito: ‘Chi non spera l’insperabile non lo scoprirà, poiché è chiuso alla ricerca, e a esso non porta nessuna strada’. Affidarsi, sottolinea Cristina Campo, non significa sperare nel colpo di fortuna, significa confidare non nell’economia dei conti usuali (che alla fine si rivela sempre un ‘fare i conti senza l’Oste’) ma in un’economia spirituale che comprende tutti gli eventi in un significato più ampio.
Le fiabe, l’impossibile e il mistero
L’eroe di fiaba si confronta con ciò che non ha speranza terrena e che può essere superato solo se si è mossi da un sentimento che sappia trovare il punto archimedico fuori del mondo (C. Campo, Gli imperdonabili). ‘Qualunque cosa pur di salvare mia madre, la mia amata’ è la formula simbolica che, come la preghiera, smuove le montagne e apre l’ingresso ad un’altra dimensione. Da questo momento l’eroe diviene capace di tutto osare, di credere nell’insperabile, di ribellarsi all’onnipotenza del visibile.
Può sottostare con fiducia a tutte le ordalie, valicare fuochi, ammansire draghi, correre tornei. Per incontrare la sua diletta accetterà come Giacobbe di essere sposo per 7 anni di quella che aveva rifiutato, se nobile si farà servo, sottostarà a umiliazioni, si vestirà da mendico e nasconderà le sue qualità. In termini junghiani diremmo che deve incontrare la sua ombra e non averne paura perché per raggiungere lo sviluppo armonico della personalità è necessario integrare anche la funzione meno sviluppata.
Nella fiaba vince il grullo, il puro folle, come Parsifal, colui a cui il mondo sembra non aver insegnato nulla, che ragiona a rovescio. Ma si scopre che costui sa apprendere da chi e da ciò che gli altri disprezzano, sa discernere nella trama degli eventi il filo segreto, sa cogliere la melodia e l’inspiegabile gioco d’echi della vita, riesce a trovare la strada nel labirinto, a sciogliere, quasi senza accorgersene, enigmi indecifrabili per gli altri
La materia delle fiabe è il mistero, il protagonista è l’invisibile e gli autori più raffinati e artisticamente dotati di ogni epoca hanno saputo cogliere tale mistero nelle voci del popolo (vox populi, vox dei).
Fiabe e superamento delle prove
L’eroe di fiaba, crede, come il poeta, alla parola e crea con la parola prodigi. Ma le fiabe ci insegnano anche il valore del limite e della rinuncia, ci ricorda ancora Cristina Campo.
Nella favola di Cenerentola la protagonista deve confrontarsi con la prova dell’accettazione del limite temporale impostole dalla fata: la mezzanotte, ora magica del confine e della trasformazione. Il limite temporale è sempre il più difficile da accettare, perché ci parla della fine e ci ricorda in maniera imperiosa la nostra finitezza che è però anche la nostra umanità.
L’infrazione del limite, che corrisponde a quello che i greci chiamavano peccato di ybris, ci può portare alla perdita dell’incanto magico e, finito il primo ardore, a risvegliarci il mattino sulle ceneri fredde.
Cenerentola, nella terza notte di ballo, proprio quando il sogno dei sogni sembra quasi raggiungibile, sfiora quel precipizio nel quale tutto rischia di essere inghiottito. Per schivarlo deve fuggire all’impazzata, non curandosi di perdere il suo scarpino di vaio, di rinunciare a una piccola parte del gratuito, estatico presente donatogli da una potenza misteriosa. Ma sarà proprio la scarpina di vaio a cui ha saputo rinunciare il filo grazie al quale il principe potrà ritrovarla. La sua accettazione del limite, il sacrificio di una parte gli donerà il tutto.
Un’altra favola, Belinda e il mostro, pone il tema del limite.
Belinda, grazie alla sua mitezza, generosità e pazienza aveva saputo accettare la sorte apparentemente avversa e a rimanere con grazia e altruismo accanto al mostro. L’amicizia che ella riesce a creare con lui testimonia la sua lunga, difficile lotta contro la superstizione, il giudizio secondo l’esteriorità, la paura dell’ignoto.
Tuttavia la nostalgia di affetti familiari vagheggiati la porta a voler ritornare nella sua casa d’origine e a quasi dimenticare la promessa di non indugiarvi oltre il limite di otto giorni. Ella così rischia di divenire preda del passato e dell’invidia delle sorelle. In ogni cammino è sempre presente il pericolo di una caduta nel cerchio stregato del passato che, al pari di un freddo fuori stagione, può congelare le promesse della primavera. Belinda nella sua dimenticanza del limite rischia di provocare la morte del ‘mostro’, ma la sua dimenticanza sarà la felix culpa che la porterà a superare se stessa e i propri timori e a andare verso le nozze così temute che le apriranno la via della trasformazione: il mostro si rivelerà un bellissimo principe rinchiuso da un malvagio incantesimo in una forma ripugnante e lei diverrà principessa, sovrana di sé e del suo destino.
Le fiabe e la metamorfosi
Le metamorfosi esteriori (le zucche diventano carrozze, il mostro che si trasforma in principe) parlano di quella metamorfosi interiore che ci trasforma totalmente, che ci rende completamente diversi, che toglie la fuliggine dal nostro animo e ci ridà l’abito regale a noi destinato di cui si parla nell’Inno alla Perla del Vangelo di Tommaso. La metamorfosi comporta un’educazione dell’anima non indolore, perché spesso, solo attraverso le prove a cui la vita ci ha sottoposto, scopriamo la sua verità e il suo senso, quanto siano preziosi per noi le cose più semplici che non potremmo barattare con tutte le ricchezze del mondo, ci fa scoprire la bellezza delle persone che amiamo nonostante o proprio per i segni della sofferenza e dell’età che non fanno che aumentare la nostra capacità di amarle.
Anche Dante ci insegna che al regno dei cieli, dove ha ritrovato la sua Beatrice, si può giungere solo quando se ne è divenuti degni e cioè dopo aver visitato tutti i gironi dell’inferno ed essersi purificati salendo i gradoni del purgatorio! Ce lo dice anche il Vangelo: a chi ha sarà dato! Solo chi ha già trovato interiormente il bene, potrà riconoscerlo fuori di sé e goderne.
Le fiabe ci parlano di un luogo e di un tempo altro. ‘C’era una volta, in un castello, in un regno lontano ai confini del mondo, in un paesino piccolo piccolo dimenticato da tutti…’. Ma quel luogo è il luogo per eccellenza, il luogo senza luogo che è ovunque, e il tempo è il tempo che si sottrae all’entropia, alla distruzione, al consumo della vita, è l’eterno.
Ci parlano di avventure, di viaggi in luoghi lontani, in capo al mondo, per raggiungere i quali bisogna attraversare sette monti e sette mari e che pure dopo tante fatiche, quando il protagonista è ormai sfinito, si raggiungono miracolosamente in un baleno, grazie all’aiuto di una forza misteriosa, di un animaletto soccorrevole, di una formula magica detta da una vecchia o un personaggio in apparenza insignificante, dell’anello di cui si ignoravano o si erano dimenticate le straordinarie virtù. Al termine del viaggio, percorse tante leghe o trascorsi tanti anni si torna al punto iniziale e si scopre che era lì il tesoro che cercavamo, ma anche che quel lungo peregrinare era pur necessario a che noi ne prendessimo coscienza.
Ci parlano della paura, del terrore, ci dicono come sia inevitabile provarli e che chi sembra non temere nulla muore di paura scorgendo la propria ombra, ma ci dicono anche che le peggiori paure, i più carnali terrori non possono stornare l’eroe dalla ricerca della fanciulla della più irreale bellezza. Perché l’uomo non può che cercare il bello e il buono nella loro soprannaturale perfezione e per riuscire ad incontrarlo, ci dice ancora Cristina Campo, sono necessarie le 4 virtù cardinali, le 3 virtù teologali e ancora i 7 doni dello spirito santo.
Ci fanno entrare in un mondo di specchi, in cui, come nelle antiche danza di corte, bene e male si scambiano le maschere.
Le fiabe e il male
Nel mondo simbolico delle fiabe sono sempre conpresenti gli opposti, la luce e l’ombra, il giorno e la notte, il bene e il male. La tensione di questi opposti, se pur ci fa soffrire, è creatrice, foriera di nuove possibilità : polemos panton patér, dice Eraclito, la guerra genera tutte le cose.
Nelle fiabe c’è posto anche per ciò che è scisso, ciò che si oppone, l’antagonista, il diavolo.
Il diavolo compare spesso proprio a negare la nostra possibilità di guardare oltre il visibile e ci propone ricchezze visibili e concrete, strade facili per arrivare alla meta, ci promette di risparmiarci qualcosa che temiamo, come la povertà, la nostra debolezza, la vecchiaia. In cambio (come Mefistofele a Faust) chiede cose apparentemente di poco conto, nulla di concreto, vuole soltanto l’anima, che soprattutto ai giorni nostri non ha valore di mercato.
La nostra amica e collega Giulia Valerio ha esaminato (vedi Il male, a cura di Claudio Widmann, Magi 2009) alcune fiabe dei fratelli Grimmm, particolarmente interessanti proprio per la loro valenza educativa: Pelle d’orso e Il fuligginoso fratello del diavolo, I tre garzoni.
Nel primo racconto il protagonista, adirato con i fratelli che non lo hanno accolto a casa quando è tornato reduce dalla guerra, accetta l’aiuto del diavolo che gli promette facili e inimmaginabili ricchezze se solo rinuncerà a lavarsi, pettinarsi, tagliarsi unghie e capelli. Il diavolo gli chiede così di rinunciare al suo aspetto umano, alla sua dignità che si manifesta in una cura del corpo, in un abito che è anche un habitus, un modo di essere presente nella convivenza civile, gli chiede di divenire un bruto. Ma il protagonista in realtà, proprio perché la sua indole è buona ed è caduto nella trappola del diavolo spinto dal risentimento per persone malvage, riesce alla fine a liberarsi del diavolo che si prenderà in cambio i veri malvagi.
Ne I tre garzoni il diavolo, in cambio dei suoi favori, chiede ai tre giovani di usare un vocabolario limitato a solo tre frasi (Tutti e tre insieme, Per l’oro, Era giusto) che, guarda caso, sono abbastanza emblematiche del loro modo di vivere immerso nella materialità e nel collettivo e privo di responsabilità personale. Proprio tali frasi li porteranno, in occasione di un processo in cui saranno casualmente coinvolti, alla condanna per ammissione della colpa. Il male spesso accusa e condanna se stesso!
Le fiabe ci parlano anche della felix culpa, degli errori inevitabili in ogni processo di crescita della consapevolezza, nel lungo cammino dell’individuazione che, come ogni cammino in salita, conosce soste forzate, regressioni, incidenti. Ma il lieto fine con cui immancabilmente esse ci riportano alla realtà del quotidiano ci aiuta a non perdere coraggio, perché anche nelle situazioni apparentemente senza speranza e buie, quando giunti alla fine del nostro cammino ci troviamo davanti a una porta chiusa, può comparire un elemento non pre-visto che improvvisamente illumina di nuova luce il percorso compiuto e ci indica un’altra strada, un’altra possibilità ad un livello altro.
Anche se nelle fiabe non compare mai una morale esplicita, possiamo ritrovare in esse il fondamento di ogni morale: il coraggio di diventare ciò che si è. Gli eroi della fiaba ci insegnano ad accettare e utilizzare opportunamente anche l’«impulso cattivo» che può rivelarsi essere in realtà l’impulso elementare, ‘il lievito della pasta’, come lo chiamavano gli antichi rabbini, che ben sapevano come il livello di un uomo sia necessariamente legato alla quantità di ‘lievito’ che è in lui. Platone nel Fedro rappresenta l’anima come un auriga che guida un cocchio trainato da un cavallo bianco che tende verso l’alto e da un cavallo nero bizzoso che tende verso il basso. Il cavallo nero non va eliminato, è quel lievito essenziale che fa crescere l’impasto umano e ne amalgama gli ingredienti.
Il male nasce dalla disarmonia dell’uomo che decide solo con una parte di sé invece che con tutto se stesso. Perché «il male non può essere compiuto con tutta l’anima; il bene… soltanto con tutta l’anima».
Le fiabe e il vero sapere
L’uomo naturalmente Homo Religiosus e Symbolicus, solo in un successivo momento di crisi e di dubbio diviene Homo Philosophicus.
E la vera sapienza, il ‘sapere la vita’ non viene dalla logica deduttiva, lineare che conosce soltanto la concatenazione di causa ed effetto e il principio di non contraddizione, ci viene dall’immaginazione creatrice, dall’immaginale, ‘non da ciò che si vede, ma dal modo in cui si vede’ (Corbin).
La vera conoscenza ci dicono i mistici di tutte le religioni è solo visionaria (visione equivale al greco idea). Anche per Platone, la conoscenza deriva dall’Idea-Immagine-Visione. Per entrare in contatto con il mondo delle Visioni-Immagini-Idee, basta aprirsi ad esso, porvi attenzione.
Nelle religioni del Libro, l’unico modo di rapportarsi al Libro, alla Rivelazione, l’unica possibilità ermeneutica, interpretativa concessa all’uomo è viaggiare nel Libro, sfogliare il Libro di ciò che ci è rivelato, scorrere in esso, dis-correre, dia-logare con esso. Non in maniera superficiale, orizzontale, come d’abitudine, perché ogni pagina sfogliata equivale a un gradino del viaggio nella luce e dobbiamo essere pronti ad ascoltare e decifrare il senso profondo, a farci trasportare e trasformare, a passare dal superficiale al nascosto che si viene scoprendo, che ci si svela e rivela.
Le fiabe ci porgono sempre questo insegnamento. L’eroe della fiaba deve avere il coraggio di seguire un consiglio strano, talvolta ripugnante, pauroso (aprire una botola e scendere giù, entrare in un pertugio e seguire una stradina incerta e difficoltosa, accogliere nel suo letto un animaletto, magari un rospo…) e, solo dopo essersi affidato, scopre che la botola portava al tesoro, la stradina alla casa della maga che gli avrebbe rivelato preziosi segreti o conferito poteri magici e il rospo era proprio il principe dei sogni!
Le fiabe rendono immortali
Le fiabe ci collegano all’arte della memoria, al ricordo, che è il tesoro segreto, il segreto dei segreti che serbiamo nel nostro cuore, che non conosce tempo e che ci salva dal pericolo della morte e dell’annullamento.
Nella letteratura tradizionale, nelle Mille e Una Notte, nelle Fiabe del Kordofan (v. Leo Frobenius), nell’Odissea l’eroe che racconta si salva dalla morte raccontando. Il fine del racontare e del ricordare è sempre salvarsi dalla morte e dall’annichilimento.
Ce lo spiega Martin Buber trasmettendoci la sua fede estatica attraverso la sua capacità di narrare e di porsi in sintonia con la sapienza dei Chassidim.
Ci racconta che quando il gran rabbino Israel Baal-Tov vedeva che la sfortuna minacciava gli ebrei, si recava d’abitudine in una certa parte della foresta a meditare. Lì accendeva un fuoco, pronunciava una preghiera speciale e il miracolo avveniva e la sventura veniva evitata.
Più tardi, quando il suo discepolo, il celebre Magid di Mezritch, dovette intercedere, per la stessa ragione, presso il Signore, andò nello stesso posto della foresta e disse: “Maestro dell’universo, ascolta! Non so come accendere il fuoco, ma sono ancora in grado di pronunciare la preghiera”. E di nuovo il miracolo avvenne.
Ancor più tardi il rabbino Moshe-Leib di Sasov, per salvare di nuovo il suo popolo, si recò nella foresta e disse: “Non so come accendere il fuoco, non conosco la preghiera, ma conosco il luogo e ciò deve essere sufficiente”.
Infine toccò al rabbino Israel di Rizhyn di vincere la sventura. Seduto sulla sua poltrona, la testa affondata nelle mani, egli parlò a Dio: “Sono incapace di accendere il fuoco e non conosco la preghiera: non posso neppure trovare il posto nella foresta. Tutto ciò che posso fare è raccontare la storia e ciò deve essere sufficiente”. Ed era sufficiente. Dio ha creato l’uomo perché Egli adora i racconti.