Tempi alchemici

Ezio Albrile

C’è nella vita di ognuno un senso di imperfezione che nasce dal percepire l’inutilità di quanto, negli anni, s’è andato facendo; come le idee e le convinzioni siano vane, alterne e inclini a subitanee mutazioni. Uno scorrere di emozioni cangianti che fanno dell’individuo una marionetta in balìa di un avvicendarsi casuale, di una Heimarmene capricciosa quanto oscura e fatale. Si può dire che la beffa del pathos umano sia ritmata nell’oblivione: unica certezza la fine, che giunge, anch’essa maculata da una inesorabile attesa. Tutto questo ha provato a narrarlo, tempi addietro, Antonio Fogazzaro nel capolavoro visionario Malombra (edizione utilizzata: Garzanti, Milano 2004). Molteplici i segni che nel romanzo conducono verso un itinerario «gnostico». Dal luogo in cui si muove la vicenda, il Palazzo del conte, vero e proprio tempio e simulacro della memoria, in cui tutto è concepito per celebrare un’arcaico rito di anamnesi. Un arredo singolare, un grande orologio da muro, reca, fra le tante, un’indelebile traccia: all’apice della cassa spicca una figurina alata con incisa la parola greca psychē, Anima. Monito di ciò che sarà nel romanzo la peregrinatio dell’Anima, raccontata nel periglio della metempsicosi.

Dürer: I 4 cavalieri dell'Apocalisse
Dürer: I 4 cavalieri dell’Apocalisse

Il giardino, lussureggiante e labirintico, antistante lo mnemeion avito, ospita, al sommo di una scalinata, una fontana, singolare intreccio iconografico di mito e di filosofia: la statua di una Naiade ignuda con nelle mani un’urna nell’atto di versare l’acqua, porta incise nel basamento le famose parole di Eraclito: panta rei = «tutto scorre» (p. 25); stigma di una vicenda che si dipanerà, fluida, nei penetrali del tempo, in una vana molteplicità di direzioni. È la balenante fortuna dell’Anima, di Cecilia, di Marina di Malombra, che transita nel mondo.

Sul proscenio del divenire «ritorna» una medesima storia, una circostanza lapsaria di prigionia. Le vite umane, burattini in una recita assurda, si muovono in un orizzonte negativo: non c’è liberazione, emancipazione dal fato, manca l’autocoscienza di ciò che sta accadendo. L’Anima è ostaggio, in balì­a di ascose oscillazioni del divenire. Riproposizione di un immemore mitologhema gnostico descritto in modo tragicamente espressivo nell’Esegesi dell’Anima, un trattato ritrovato a Nag-Hammadi: «… quando discese nel corpo, venuta in questa vita, l’Anima cadde nelle mani di molti briganti (leste), e gli sfacciati se la passarono l’un con l’altro e la contaminarono. Alcuni abusarono di lei con violenza, altri invece la persuasero con un dono ingannevole. In breve, fu contaminata. Ella perse la sua verginità (parthenia) e fornicò (porneuein) con il suo corpo e si diede a tutti». Nell’Esegesi dell’Anima la caduta e la contaminazione nel mondo, intimamente connesse, richiamano una negazione dell’eros, della genesis e della hedoné, visti come concatenazione ed effetto della commistione dell’Anima con desideri e passioni corporee. Oltre c’è solo la certezza, per lo gnostico, dell’evento salvifico che porterà l’Anima, cosciente della propria filiazione divina, al ritorno verso la condizione originaria nel pleroma di Luce.

Ciò presuppone la dialettica ermetica e neoplatonica tra Aion = eternità e Dio: l’eternità è in Dio, il mondo nell’eternità, il tempo nel mondo, il divenire nel tempo. E mentre l’eternità sta immobile intorno a Dio, il mondo è in movimento nell’eternità, il tempo si compie nel mondo, il divenire diviene nel tempo. Il tempo quindi è un’immagine dell’ Aion, ma in senso imperfetto e «mancante»: il deragliamento di quest’idea è nel nichilismo gnostico: il tempo è una contraffazione dell’eternità. Le scintille di luce sono soggiogate al tempo, così come sono racchiuse in una frammentaria frazione di spazio. Il kosmos ha bisogno di chronos: il fluire del tempo è regolato da una legge che se per gli ermetici è
«divina» negli gnostici diventa inesorabile.

Èl’aurora in cui si elidono lo spazio e il tempo, fondamenti del nostro illusorio agire e «pensare». Spazio e tempo sono la stessa cosa: da un lato sembra spazio e dall’altro sembra tempo. Un asserto gurdjeffiano che facciamo nostro, così come sentiamo nostre gran parte delle affabulazioni immanenti al libro di Eleonora Manca, Il sognante risveglio alla visione (Maria Pacini Fazzi, Lucca 2006). Il volume presenta una insolita rassegna di mondi culturali «immaginali», incluso un rinnovato e visionario Living Theatre dai contenuti «gnostici» (pp. 103 ss.). Sullo sfondo vediamo stagliarsi l’immane figura di un bianco cetaceo, un vishap armeno cioè una balena che vive sui monti, dracontica immagine nella quale sono racchiuse le vane attese di un nuovo Redentore che mai giungerà.

È il gioco estetico del sacro, ammantato di mitologie e quotidianità : esso costituisce l’occasione di un indietreggiamento verso l’irreale, sia per stordirvisi, sia per trovare l’angolo visuale a partire dal quale la realtà svelerà la sua dimensione metafisica come in una partita a scacchi. Certamente l’immaginario poggia su oggetti culturali preesistenti, è un filtro di elaborazioni derivate: sogni angosciosi, percorsi interrotti, personaggi, sono prolungamenti di lettura. Si ha l’impressione che il romanzesco nasca per decantazione del materiale culturale che l’ha ispirato, e che l’atteggiamento del narratore sia piuttosto la ricerca di un valore ludico celato nella favola, che non quello del valore pedagogico, etico, ammonitivo.

Si può quindi concludere che il romanzo di Fogazzaro ci parla di sensazioni scolpite nel tempo, stati di angoscia, musica, di luoghi ancestrali; vuol dirci qualcosa che non si sarebbe dovuto perdere. Questa continua imminenza della rivelazione è il fatto estetico. Quando l’oggetto ierofanico, come direbbe Eliade, subentra come verità o misura del mondo, e il romanzesco defluisce, si può giungere al regno della morte. Come una forza centrifuga questo oggetto scompiglia il lucido piacere nato dalla lettura, la rende inabitabile; sebbene si possa argomentare con ragioni umane la presenza di una speranza, tuttavia essa si profila come un incubo, una presenza imperscrutabile e angosciosa eppure centrale.

In questo senso, seguendo Heidegger, l’angoscia è la tonalità emotiva «epocale», radicalmente sospensiva, propria della forma di vita tipica della modernità, inerente un modo d’essere nel quale non sopravvive più alcuna traccia di comunità tradizionali, delimitate e protette dallo schermo di abitudini consolidate. Solo quando la fluidità del mondo muta, cangiante, in un confortante oblio, irrompe inesorabile la vertigine della paura. Vengono meno i dispositivi sociali destinati a neutralizzare l’angoscia. Senza gli argini dell’ethos comunitario, la vita nella tarda modernità si dilata superando il confine rassicurante della propria apparenza, si espone all’amorfìa e all’indeterminatezza di un mondo nel quale si trova gettata senza alcun riparo. Qui, la minaccia diviene ubiqua e continua, indecifrabile nella sua natura e nella sua provenienza.

D’altra parte, la costante impermanenza degli stili di vita tardomoderni, il continuo disfarsi e rinnovarsi di abitudini già in sé artificiali e provvisorie, l’addestramento ininterrotto – richiesto dalla vita metropolitana – a fronteggiare una incertezza tracimante e a frequentare l’estraneità di folle anonime, attivano il deragliamento della coscienza. Nel complesso questa situazione implica una collisione con la finitudine in cui alberga l’uomo, la sua vita fittizia organizzata in una «società ». Una condizione di esilio urbano speculare al mito nichilistico plasticamente narrato ne «L’angelo sterminatore» di Buñuel.

Nel lungometraggio del grande maestro surrealista un gruppo di persone, esponenti della società borghese agiata e dei suoi valori obsoleti, riunite in una sala per un party giocoso, si ritrovano prigioniere di una forza misteriosa che preme su di loro invisibilmente con l’effetto di un’angoscia suicida. Senza che esistano barriere materiali e visibili che impediscano la fuga, i personaggi sentono incombere su di loro la presenza di una barriera interiore e segreta che li inchioda nella sala e li costringe a condurre sino in fondo il gioco iniziato: un gioco che mette a nudo la loro condizione di primordialità inumana e che, sotto la facciata della «rispettabilità » borghese, disvela la fondamentale assenza, in essi, dei minimi connotati di una «civiltà ». Essi di fatto regrediscono alla pura animalità e la loro è una regressione irreversibile, tanto da portarli al suicidio e all’autoannullamento come esseri umani.

Il filo conduttore dell’analisi sociale ed esistenziale sviscerata nel capolavoro di Buñuel torna nell’opera prima dei Petrol Dal fondo (Casasonica 2007), un’entità musicale, che sin dal nome, probabile citazione dell’ultimo epigono pasoliniano, porta l’indelebile traccia del nichilismo metropolitano. In particolare un testo firmato da Franz Goria, Il nostro battito del cuore, ritrae la decomposizione del presente, di una comunità in cui doppiezza e mistificazione sono la norma : «La nostra società protetta e sicura / dove tutti son felici, dove tutto fa paura / nella nostra società dove gli artisti ei poeti / muoiono nel fango quando non sono ciechi… in questa società dove la gente è pulita / e crede che sia giusto sacrificarsi in vita. La nostra società piena di santi e croci / di immagini divine, di mille mute voci / in questa società di eroi al supermercato / di plastica e petrolio, di odio colorato.» Il fare quotidiano, reiterato, svela l’identità ultima dell’uomo, un’inutile carcassa dominata dall’animalità : «Negli occhi della gente che osserva il proprio rito, / e ripete tutti i giorni lo stesso gesto smarrito… Siamo solo dei mammiferi / o un insieme cellulare / su una fetta di terra / che non smette di girare… Hai necessità di vivere e uccidi per potere…»

Anni addietro, Rainer Werner Fassbinder, talentuoso regista teutonico, ha raccontato lo sfaldamento dell’universo borghese in tanti lungometraggi. Uno, un film televisivo del 1973, è scivolato incomprensibilmente in un profondo occaso. Si tratta de «Il mondo sul filo» (Welt am Draht), tratto dal romanzo Simulacron III di Daniel F. Galouye. Singolare e curiosa anticipazione di pellicole quali Dark CityMatrix Vanilla Sky, che in tempi recentissimi hanno polarizzato il diletto di un pubblico ormai in balìa dei flussi mareali a stelle e striscie. Eccone in breve lo svolgimento: all’Istituto di Cibernetica e di Futurologia, il computer Simulacron permette di imitare con precisione vicende politiche, sociali e economiche del futuro, come se avvenissero nel presente. Il direttore di questo progetto di studi, Vollmer, si suicida un giorno in circostanze poco chiare. Il suo successore, il dottor Fred Stiller, che era il suo più stretto collaboratore, non crede assolutamente al suicidio e sostiene che il responsabile dei servizi di sicurezza dell’Istituto è sparito senza lasciar tracce.

Stiller deve difendersi dalle pressioni esercitate dalla grande società Hartmann che desidera ottenere informazioni sulla produzione d’acciaio nei prossimi venti anni. Eva Vollmer, la figlia del professore, aiuta Stiller nella ricerca della verità. A poco a poco Stiller capisce quanto sta succedendo. Il mondo nel quale vive non è altro che un simulacro creato da un altro computer. La scoperta lo mette in pericolo. Cercano di arrestarlo ma egli fugge. Incontra Eva, che l’ama e gli spiega che lei è una proiezione e una replica della vera Eva che vive nel mondo reale. La donna mette in contatto i due mondi e mentre dinanzi all’Istituto alcuni poliziotti uccidono Stiller, egli si ritrova nel mondo reale con Eva, che è riuscita a trasferirne la coscienza. Questa storia complicata, impossibile da riassumere in tutti i suoi dettagli, è narrata con estrema semplicità come un racconto d’avventure intenso e pieno d’azione. Il mondo creato dal computer non è molto diverso da quello in cui viviamo: è fatto di vetro e d’acciaio come gli uffici e gli istituti costruiti oggi. Come in Alphaville di Godard, al quale fanno pensare le scenografie, non si tratta della descrizione del mondo di domani ma di quello odierno, lontano, nel senso in cui ci si fa credere che non è reale, ma è un semplice simulacro del mondo reale. Si tratta di una proiezione mentale identica alla nostra realtà, non solo esteriormente, che tuttavia non può oltrepassare le soglie del pensiero umano. Il film descrive apparentemente la lotta solitaria di un uomo contro la corruzione e il terrore, e il suo riscatto ottenuto grazie all’amore. Il romanzo di Daniel Galouye da cui è tratto il lungometraggio è più pessimista; i suoi personaggi sono più deboli di quelli che nel film subiscono il sistema e il destino. Fassbinder ha contrapposto al fato la forza della volontà. Notiamo inoltre il classico motivo gnostico di una donna terrena contrapposta a una donna celeste: all’Eva carnale, sedotta dagli Arconti e priva di gnosi, si contrappone un’Eva spirituale, che esprime l’inclinazione e l’insopprimibile anelito verso il mondo divino e luminoso. La vicenda di Stiller è la vicenda di Adamo, che nel mito gnostico per salvarsi deve riconoscere la «donna celeste» celata entro il Serpente, in opposizione all’Eva terrena, che al contrario percepisce nella figura del Serpente unicamente la natura materiale, restando conseguentemente priva dell’illuminazione. Una traccia «romantica» di questa mitologia è nel dimenticato Pietro d’Abano di Ludwig Tieck (1773-1853), un’opera magica e visionaria, che parafrasa il tema della doppia femminilità gnostica. Antonio, nobile fiorentino cui è stata promessa in sposa Crescenzia, giunge a Padova appena in tempo per assistere al funerale dell’amata, che si svolge al cospetto del famoso dotto Pietro d’Abano. Disperato, il giovane fugge nel bosco dove scopre una casetta abitata da una laida megera e dalla figlia, sosia perfetta di Crescenzia. In realtà la fanciulla altri non è che la sorella gemella della defunta, rapita ancora in fasce ai genitori. Ma anche la vera Crescenzia non è morta: è tenuta segretamente in vita con delle pozioni magiche nella casa di Pietro d’Abano. Il grande mago e necromante tiene la giovine in una condizione di animazione sospesa per alimentare, nel proprio delirio erotico, una sorta di universo onirico parallelo. Ovviamente, Antonio scoprirà l’intrigo e dopo alterne vicende riuscirà a debellare il famigerato mago, e tutti vivranno felici e contenti… Ma questa è un’altra storia…

Tornando all’opera di Fassbinder, è certo che la scrittura originale della pellicola tradisce una sequela di fascinazioni narrative che, sommate alle intuizioni del geniale regista teutonico, segue curiosamente i tormentati sentieri letterari di un grande visionario d’oltre oceano, Philip
K. Dick. L’opera di riferimento è la cosiddetta «trilogia di Valis», in particolare la sua Divina invasione (Mondadori, Milano 1986, trad. V.Curtoni). Valis è un satellite artificiale creatore di una realtà fittizia: dallo spazio esterno proietta un ologramma che tutti scambiano per il mondo «reale». Non è difficile qui scorgere l’idea base della scrittura di Fassbinder e, più recentemente, di Matrix. Valis è un generatore di realtà, un Demiurgo che conduce la gente a vedere tutto ciò che egli vuole. Il suo è un cosmo lapsario frutto di un errore: la Divinità s’è frantumata, un collasso ontologico in cui Dio ha perso contatto con una parte di se stesso. Un tema che accomuna Ph. K. Dick con un sentire arcaico, usualmente definito «gnostico».

Il mito gnostico rivissuto nella poetica di Ph. K. Dick attraversa l’illusorietà dei «mondi», gli arcaici «Eoni» planetari o zodiacali, l’universo oscuro dominato dai Sette (pianeti) e dai Dodici (segni zodiacali). L’infinità delle potenze autogenerate si contrappone al «mondo» nella sua estensione spazio-temporale e alle «generazioni», che la dottrina gnostica vuole dissolvere. Il cosmo diventa in questo modo una cellula creatoris, una «casa» in procinto di crollare, un involucro somatico in dissolvimento, mentre l’Anima cerca una «abitazione» stabile, imperitura, nella Regione della Luce, nella più famosa shekinhâgiudaico-kabbalistica: la «dimora» del Dio splendente e sua «gloria», personificata e assorbita nella Luce infinita (ora anche cibo mentale per le fameliche folle di fruitori de Il Codiceda Vinci).

Il cosmo di Valis è il cosmo della trasmigrazione: Goethe, Jakob Boehme e Martin Buber sono la medesima entità, la Torah un codice per muoversi attraverso i mondi. È la metafora del trasfondersi di un’unica essenza luminosa nella molteplicità del divenire. L’apocalisse gnostica di Zostriano definisce tale ricorrenza animica con il termine paroikesis, «trasmigrazione», corrispondente all’ebraico galut, «esilio» (da collegare all’ebraico gilgul, nel senso di un manifestarsi ciclico dell’anima). Ciò che emerge in questa estetica del tragico è che la vita non è un valore in se stessa, è una replica della «vera vita», quella che sta oltre la barriera del tempo, questa vita fittizia è solo uno strumento per creare valori. Valori che nella maggior parte dei casi sono disvalori, poiché l’umanità alberga, per dirla con gli antichi Teurghi, in quella condizione «lunare» che rende la vita di tutti i giorni maculata da un mare di skybala, «merda».

Ezio Albrile


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